Paesi Bassi, 20 ottobre 2024 – Tristi occhi virtuali, lamenti provenienti da altoparlanti metallici e braccia tremanti: si può provare compassione per un robot dolorante?
La ricercatrice Marieke Wieringa della Radboud University, nei Paesi Bassi, spiega come potrà essere possibile provare un senso di pietà per un robot che reagisce, ad atti di ‘violenza’, con “suoni pietosi o gesti che associamo al dolore”.
La tesi della dottoranda indaga su come le persone rispondono ai robot che mostrano emozioni quando vengono ‘attaccati’. Lo studio esamina come tali robot influenzano le emozioni e il comportamento delle persone nei confronti delle stesse macchine.
I risultati mostrano che le persone sono leggermente più propense a credere che un robot stia realmente provando dolore quando agisce come se provasse un disagio emotivo. Coloro che hanno partecipato all’esperimento non avevano problemi con i robot che non mostravano alcuna emozione. Invece è risultato ben presto evidente che gli automi in grado di suscitare compassione facevano sentire le persone molto più in colpa.
Un ulteriore esito suggerisce che i robot che mostrano emozioni potrebbero essere in grado di manipolare le persone. Probabilmente la tesi invierà il messaggio che tale comportamento non verrà accettato nella società e, secondo Wieringa, la ricerca evidenzia anche la necessità di norme che andranno a stabilire i casi in cui è consentito, a robot, chatbot e simili, di simulare emozioni.
La ricercatrice avverte che la capacità umana di provare compassione anche per oggetti inanimati potrebbe presto essere sfruttata dalle aziende. "È anche vero, però, che i robot emotivi avrebbero alcuni vantaggi. Per esempio – osserva la ricercatrice – potrebbero essere utilizzati nelle terapie riabilitative tese ad aiutare chi ha avuto un trauma, facilitando così la ripresa da parte dei soggetti in cura. Ci piace pensare di essere creature molto logiche e razionali che non si fanno ingannare facilmente, ma alla fine a guidarci sono anche le nostre emozioni: e va bene così, altrimenti – conclude Wieringa – saremmo robot anche noi".