Roma, 6 gennaio 2017 - Prima non esisteva il touchscreen, tutto passava per una tastiera. E navigare su Internet con un telefonino non era così facile. Poi arrivò Steve Jobs, in girocollo nero e scarpe da ginnastica, il 9 gennaio 2007, a presentare al mondo il primo iPhone durante la conferenza di apertura del Macworld di San Francisco. «Abbiamo reinventato il telefono», disse l’allora amministratore delegato di Apple: l’antenato Newton MessagePad era grande il doppio. Ma non solo. Da allora il cellulare smise di essere solo uno strumento utile. Sono passati dieci anni dall’esordio di uno degli oggetti che più hanno cambiato il nostro mondo. Oggi almeno 2 miliardi di persone hanno in tasca uno smartphone, per un guadagno di 421,8 miliardi di dollari nel solo 2016. E l’azienda di Cupertino ha moltiplicato per sei il suo fatturato tra il 2007 e l’anno scorso. Perché, in effetti, l’iPhone è stato il primo, ma poi sono arrivati gli altri colossi dell’informatica, compresi gli asiatici Samsung e Huawei, a inondare il mercato, e la vita quotidiana di tutto il mondo, dei loro ‘telefoni intelligenti’.
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La sfida tra Apple, con le sue sette generazioni di ‘melafonini’ (almeno un miliardo di pezzi venduti in dieci anni, in attesa del modello 8 che dovrebbe uscire a settembre 2017), e i sistemi operativi alternativi al suo iOS, come Android di Google, non ha solo radicalmente cambiato il mercato della tecnologia – facendo crollare per esempio rivali come BlackBerry – ma ha segnato e segna ancora il rapporto tra uomo e macchina.
La chiave era appunto la semplificazione tecnologica: Jobs presentò l’iPhone come «tre prodotti rivoluzionari» in uno, iPod touch per ascoltare la musica, telefono e nuovo strumento per navigare in Rete. Quella ‘i’ voleva dire, e vuol dire tuttora, ‘Internet’. Dunque la rivoluzione lanciata dal visionario Jobs ha avuto l’effetto di connettere un terzo della popolazione mondiale come mai era successo prima. E soprattutto in tempi brevissimi.
L'iphone e i suoi ‘cugini’ non sono solo telefoni, strumenti indispensabili per comunicare: sono status symbol, oggetti di design che arrivano a costare anche 900 euro (quando in Italia, secondo il Jp Salary Outlook, lo stipendio medio è di 1.500 euro netti), apparecchi che hanno semplificato sì la connessione al web e al mondo, ma condizionato i rapporti sociali. In una delle ultime interviste prima di morire nel 2011, Jobs spiegò che forse la vita non era altro che «un pulsante on/off: fai click e te ne vai». Ecco perché, diceva, sui dispositivi Apple non aveva messo mai il tasto di accensione e spegnimento. Il suo sogno, simbolica profezia di quello che gli smartphone sono ormai per un terzo della popolazione terrestre, era creare un telefono che non potesse spegnersi mai.
A 10 anni da quel debutto, ricordare la rivoluzione dell’iPhone e di tutti gli altri telefoni intelligenti, vuol dire tuttavia sottolinearne anche gli aspetti più problematici. Come l’utilizzo per i condensatori del coltan, minerale estratto nelle aree della Repubblica democratica del Congo devastate da guerra e sfruttamento del lavoro minorile. O la delocalizzazione di alcune fasi di produzione negli stabilimenti cinesi di Foxconn, tra condizioni lavorative estreme e suicidi degli operai. Contro questa delocalizzazione si è scagliato pure Donald Trump: «Apple deve tornare a produrre negli Usa, altrimenti come può dire di aiutare il nostro Paese?». Al presidente eletto, per la cronaca, negli Emirati Arabi hanno dedicato un ‘melafonino’ da 150mila dollari. È tutto d’oro.