"Make money". Fare soldi. Che poi non c’è niente di male, intendiamoci. Però, se ci si chiede per quale motivo così tanti investitori stranieri si gettano sul nostro pallone - soprattutto americani - il motivo è solo il business. Va un po’ contromano Rocco Commisso che all’operazione Fiorentina ha in parte legato un aspetto d’altri tempi, e cioè riportare in Italia un pezzo del suo impero. Uno studio recente di Kpmg football benchmark inquadra una tendenza a dir poco sbalorditiva: nel 2020, l’anno segnato dalla tragedia del Covid-19 e dalle tragiche conseguenze economico-finanziarie, ci sono state 18 acquisizioni nel calcio professionistico europeo. E l’Italia è senza alcun dubbio la grande star di questo trend, considerando che circa il 25% di queste si sono concretizzate nel nostro Paese. Con una particolare attenzione per i club più antichi. Come dire: ci stiamo vendendo gli affreschi e la storia.
Indubbiamente, qui c’è il fascino della civilità millenaria. Diceva con tagliente ironia un antiquario della città d’arte di Cortona: "Vede, gli americani qui comprano e comprano e comprano perché il fascino dell’antichità è irresistibile. D’altra parte se vai da loro, una seggiola che considerano antiquariato qui da noi è buona per accendere il camino...". Poi c’è il mito del made in Italy e della ’casa del Papa’, del cibo e del popolo di santi, poeti, navigatori e bla, bla, bla. E certo comprare un club italiano che sa di antico e leggendario, è come acquistare una costosa madia del ’600, fatte le dovute proporzioni. Ma, soprattutto, il calcio italiano fa gola perché qui si possono fare grandi affari.
Prima del Covid, il pallone a livello europeo, secondo i dati dell’Uefa, era cresciuto di fatturato dai 13 miliardi del 2010, fino ai 21 del 2018, con un eloquente +66%. In pratica, ogni club europeo è cresciuto mediamente del 9%. Poi è arrivata la pandemia e tutto è cambiato. E così gli investitori ’alieni’ che hanno puntato il nostro pallone hanno fiutato l’affare. D’altra parte c’è stata la lievitazione del calcio in tv in termini di visibilitùà e ricavi ma, soprattutto, il football garantisce qui da noi una popolarità da star, moneta di scambio formidabile per aprire nuove vie di business in Europa. E non solo: cinesi, arabi e tycoon a stelle e strisce avevano soldi da investificare attraverso la ’diversification strategy’ e cioè la diversificazione dei portafogli così da garantire nuovi impulsi agli affari in Europa.
Post Covid, poi, l’Italia fa gola agli americani perchè il blasone è impareggiabile e rivaleggia solo con quello degli inglesi ma, rispetto a un club britannico, a causa di tutte le mediocrità che si porta dietro (stadi fatiscenti, merchandising carente ecc.) il nostro pallone, un club italiano costa meno, molto meno.
Dunque, il costo attira e le prospettive ingolosiscono, con margini di crescita che in altri Paesi top sono impensabili. Pensate a come James Pallotta, prima di mollare la Roma, abbia inseguito il progetto stadio. E poi, all’estero il nostro calcio a livello televisivo (i diritti) certo non tira come Premier e Liga. E, ancora, lo scenario cupo dal quale ancora non si esce: stadi chiusi per oltre un anno, revenues oltre il crollo, guerre tremende sul futuro del pallone, come nel caso della Superlega. Andrea Agnelli aveva lanciato l’allarme seguendo l’ultimo report Deloitte: entro fine 2021, le perdite dei club delle cinque grandi leghe supereranno i due miliardi di euro. E allora perché tutti ’sti americani che neanche in un film di Sordi? Il motivo è persino banale: i prezzi dei club si abbassano per la crisi bruciante e dunque si compra guardando all’ampio margine di crescita che arriverà una volta finita la crisi. O almeno così sperano i cacciatori di blasone che si aggirano attorno al nostro pallone.