Tante sono le cose di Sinisa che resteranno nella memoria collettiva. Certo, i suoi gol meravigliosi su punizione. Sicuramente quello scudetto incredibile che nel 2000 vinse con la Lazio. E ancora le esperienze da allenatore sempre in battaglia, ruvido ma sincero, mai banale.
D’accordo, va tutto bene: quando si congeda dalla vita un personaggio dello sport, il grande pubblico, noi che siamo il popolo, sì , noi rammentiamo quanto di bello e di buono ha saputo fare il campione dispensatore di emozioni bruciate in novanta minuti più recupero.
Ma con Sinisa no, con Sinisa non sarà così. O meglio, non sarà soltanto così. Non potrà essere così. Perché nel rimpianto che tutti avvertiamo in questo momento triste, ci sta, io credo, anche un senso di gratitudine. La gratitudine plebea, dunque nostra, per lo stoicismo che il protagonista ha mostrato di fronte al Nemico per antonomasia. Che non è avversario sfidato sul campo o in ufficio, non è rivale in amore o in carriera, non è competitor sul mercato.
No. Il Nemico ce lo abbiamo addosso sempre, pure quando non si manifesta. È la paura della Malattia, con la maiuscola. È la minaccia alla salute. È il terrore di un dolore imprevisto, che poi si traduce in una diagnosi feroce. Nella società post moderna non ne parliamo più, della morte. Ma è un esorcismo, è una finzione, è rimozione.
Ecco, Sinisa è stato un gigante per il modo in cui ha scelto di duellare con il Nemico. Non si è nascosto. Ha preteso di guardarlo negli occhi. Ha combattuto il match crudele con un coraggio che forse gli veniva anche dalle origini, dalle radici conficcate nella Serbia. Le sue opinioni sulle orribili guerre balcaniche di trenta anni fa certamente erano discutibili: ma anche lì si coglieva il senso di una appartenenza, mai rinnegata.
Io non posso dire di averlo conosciuto, avremo al massimo scambiato quattro parole in una diretta televisiva. Ma me lo sono sentito fratello in una notte d’agosto del 2019, quando reduce dal primo assalto del Nemico ecco, sì, lui, Sinisa il burbero, non di rado severo con i giornalisti a proposito di banalità calcistiche, lui si presentò in panchina a Verona con il suo Bologna. Era fragile, debolissimo, pelle e ossa: ma c’era. Non per l’ingaggio, non per il mestiere, non per le telecamere. C’era perché deve avere un senso, il tempo, breve o lungo che sia, che ci è dato da vivere. E non abbiamo il diritto di sprecarlo. Mai.
Quest’uomo, con il suo esempio, ci ha impartito una lezione da non dimenticare. Da trasmettere, da divulgare, da promuovere. Lo confesso impudicamente al lettore: a volte mi sono chiesto, sommessamente, dove trovasse la forza. Nel tenace inseguimento di una “normalità“ che immagino sapesse perduta, Sinisa ha dato il meglio di se stesso. Non di rado guidava la squadra dal letto dell’ospedale, si collegava in video e chissà se ha pensato, quando nel 2020 arrivò il lockdown e stavamo tutti barricati in casa, chissà se ha pensato, dicevo, che aveva fatto da apripista, da pioniere di modi nuovi di interagire, di comunicare, di connettere.
Va bene, anzi, va malissimo: alla fine la partita l’ha perduta. Ma Sinisa ha preteso di giocarla fino all’ultimo. Per se stesso, per i suoi cari, ma in fondo anche per tutti. Ha accarezzato la suggestione della guarigione, si era guadagnato il diritto di crederci. Chissà come si scrive nella sua lingua “it’s not over until is over”, non è finita fin quando non è finita. E stavolta, purtroppo, è finita davvero.
Sinisa, racconta chi lo ha frequentato, non è mai stato un uomo semplice, facile. In compenso è stato un vero uomo.