La valanga di soldi che arriva dalle tv, dal business ‘domestico’ e dalla Champions non basta più. Le big del pallone travolte dalla crisi Covid ma anche e soprattutto da gestioni economico-finanziarie folli, hanno disperatamente bisogno di soldi. Sia chiaro: i grandi club erano già in apnea, vittime dello shopping seriale degli ultimi anni che ha fatto lievitare costi e ingaggi oltre il tollerabile, a fronte di risultati sportivi mediocri, visto che le squadre italiane non vincono una coppa da oltre un decennio. Dunque, appena è arrivata la tremenda spallata della pandemia, il pallone si è ritrovato a rotolare ancor più nell’abisso dei debiti.
Prendendo in esame i bilanci di Serie A chiusi al 30 giugno 2020, emerge un dato su tutti: nella stagione 2019-20 il passivo complessivo è schizzato a quota 754 milioni rispetto al -292 del 2018-19. Un crollo determinato da un fatturato – al netto delle plusvalenze – precipitato da 2,7 miliardi a 2,2 miliardi, a fronte di costi stabili ma da far tremare i polsi: 3,5 miliardi. Il numero che fa davvero paura e costringe i grandi club del nostro campionato a cercare disperatamente nuovi fonti di guadagno è quello dei debiti, al netto dei crediti pari a 2,8 miliardi complessivi, con un +300 milioni rispetto al 2018-2019.
Anni di gestione dissennata e shopping compulsivo per portare in Italia decine e decine di calciatori mediocri – trascurando i vivai – spendendo (male) i soldi dei diritti tv hanno seppellito il nostro pallone, con i club illusi di potersela cavare con l’espediente delle plusvalenze. L’impennata degli ammortamenti dei cartellini dei calciatori disegna la tendenza che ha reso insostenibile il disavanzo tra costi e ricavi.
Nella stagione 2017-18 gli ammortamenti sono stati pari a 628 milioni, per salire a quota 787 l’anno successivo e a sfiorare il miliardo (933) nella scorsa stagione. I conti dei nostri club sarebbero stati un disastro anche senza Covid, con un’esposizione complessiva verso le banche pari a 1,5 miliardi.
E arriviamo alla riga rossa che scotta e che disegna i debiti dei maggiori club di Serie A. Chi sta peggio è l’Inter con 630 milioni di euro. La Juve sfiora il mezzo miliardo (458,3) mentre il Milan ha ‘soltanto’ 151,8 milioni di rosso. Nell’abisso debitorio c’è anche la Roma che, al 30 giugno 2020, ha fatto segnare 552,3 milioni di debiti. Per i nostri club, poi, c’è la questione stadi. Ormai, tranne i pochi, noti casi – la Juve –, le big pagano il fatto di non avere un impianto di proprietà e di essere indietro nella sfida con le dirimpettaie europee anche in tema di merchandising, introiti indiretti e sponsor. Per dirne una: il decreto dignità e il divieto di sponsorizzazione dalle aziende di scommesse – che in Premier frutta ricavi da capogiro – ha generato un buco di 112 milioni di euro.
Certo, se si va a guardare i conti delle big estere ci si riconsola. Bastano Chelsea, Tottenham, Barcellona e Real Madrid per mettere insieme 5 miliardi di debiti. Vero che gli inglesi hanno più soldi, ma anche un passivo di 4,6 miliardi, mentre nella Liga, Atletico e Real con il Barcellona, mettono insieme l’intero passivo della serie A: oltre 2,5 miliardi. È così che è scattata la ricerca di nuovi introiti. I club ribelli non vogliono più lasciare una fetta della torta all’Uefa, che deve finanziare se stessa e poi sostenere campionati in Paesi ritenuti poco significativi, addirittura zavorre. E i 2,55 miliardi di quest’anno (su 3,25 miliardi di ricavi commerciali lordi), distribuiti dall’Uefa attraverso le Coppe – 2 miliardi solo con la Champions e la Supercoppa europea, mentre 510 milioni vanno all’Europa League – non bastano più. I dodici club scissionisti vogliono tenersi anche la fetta che l’Uefa trattiene per i costi organizzativi, cioè 295 milioni. E poi, perchè club che sul piano dello spettacolo e dei diritti tv valgono zero devono incassare soldi e premi partite? Meglio farcela da soli, una Champions d’élite con Jp Morgan alle spalle, che produce ricavi da capogiro e tolga di mezzo i figli di un pallone minore. Così, è nata la Superlega.