Roma, 25 settembre 2016 - Nel '93 il presidente della Roma era Peppino Ciarrapico. L’allenatore, Vujadin Boskov. Spettacolo nello spettacolo. Il primo – signore delle acque minerali, sempre accompagnato da guardaspalle armati di bottiglie di «Fiuggi» – aveva rilevato il club dalla vedova di Dino Viola, presidente dello scudetto, per fare un piacere al tifosissimo giallorosso Andreotti Giulio, suo mentore; ma di calcio nulla sapeva, peraltro senza soffrirne (appena insediato, mi aveva chiesto s’era possibile comprare Zoff, scandalizzandomi, visto che Dino stava diventando presidente della Lazio, ma mi sollevò precisando che cercava un buon portiere e quello era il migliore in circolazione, secondo informazioni ricevute). Da parte sua, Vujadin era solo un’emergenza, non s’era mai romanizzato, aveva presto capito che il Ciarra stava finendo i soldi (per la Roma) e meditava di andarsene. Senza fare una figuraccia, naturalmente. Tant’è che chiese aiuto al settore giovanile (se ben ricordo guidato da Giannini, papà del Principe) e trovò un ragazzino meraviglia da far esordire, un Golden Boy alla romana di nascita (Porta Metrona) e «de sinistra» veltroniana: Francesco Totti, classe 1976, detto Er Pupone per evidenti rotondità coltivate con le fettuccine di Mamma Fiorella. Il ragazzo esordì a 17 anni, il 28 marzo del ’93, a Brescia.
Pochi giorni prima Vujadin mi aveva invitato a cena al porto di Fiumicino per chiarire un paio di cose del mio 'Corriere dello Sport' che non gli erano piaciute; soprattutto non aveva mai gradito le parole di Ciarrapico sulla "Grande Roma" che grande non era perché i soldi erano finiti; il presidente, famigerato affarista, nel frattempo era tuttavia riuscito a far diventare italiano (si fa per dire) il serbo Mihailovic, un ottimo giocatore della Stella Rossa di Belgrado, pagandolo zero lire perché mentre lo portava a Roma la Jugoslavia si disintegrava. «Devo andare avanti in qualche modo – mi disse Vujadin – e ho chiesto di conoscere tutti i giovani di valore che mi restano. Un suo collega mi ha parlato di un baby straordinario, Francesco Totti: domenica esordirà a Brescia». Sparai la notizia, accolta – come tutto a Roma – da fischi e applausi. Esordì, Francesco, meritando una bella pagella, il posto fisso e rincorrendo la maglia dei grandi, l’ormai eroico 10. Vujadin, orgoglioso, si presentò al commiato da un calcio che gli aveva dato poco o nulla senza far bancarotta.
Onesto, rinunciò alla Capitale. Sostituito – mi chiese aiuto Ciarrapico – da Carletto Mazzone che furbescamente s’attaccò a Totti dicendosene più tardi lo scopritore. Non era stato Colombo, solo Vespucci. Martedì compie quarant’anni, Francesco, e se fosse per lui tirerebbe al record di Sir Stanley Matthews, che giocò nello Stoke City, nel Blackpool e nel Toronto fino a 55 anni (in nazionale fino a 42); eroicizzato da una maglia che non ha mai cambiato, nonostante un’offerta miliardaria del Real Madrid; adorato dal popolo romano orfano di miti dall’addio di Falcao (fra l’altro poco eroico nella finale di Coppa Campioni contro il Liverpool); esaltato da una classe enorme che gli ha fruttato confronti con Valentino Mazzola e Gianni Rivera; dotato di tanta fantasia e voglia di crescere, fino a trasformarsi da aspirante coatto ad attore raffinato; autore di gesti imitati dai campioni di tutto il mondo (la finta panciona quando la moglie Ilary aspettava il primo figlio, il pollice in bocca quando nacque Cristian, poi seguito da Chanel e Isabel): fra un gol e l’altro (oltre 300 in campionato, secondo solo a Nordhal, come Piola, Meazza, Baggio, Del Piero, Inzaghi, Toni, Di Natale e Altafini; 27 in Nazionale, compresa la laurea di Campione del Mondo) Francesco è diventato un mito della comunicazione, anche grazie alle cure di Maurizio Costanzo che ha avuto più successo con lui che con D’Alema.
Nel frattempo, da finto pacioccone guidato in privato dalla mamma, sul campo da Vito Scala, preparatore e tuttofare che si beccò anche un pubblico ‘vaffa’ all’Olimpico, Totti è diventato anche un prodigioso imprenditore di se stesso, svagando dal calcio alla tivù, dalla narrativa libraria alla pubblicità, senza tuttavia mai rinunciare alla prestanza fisica che gli costa dura applicazione e una vita a Trigoria, la sua seconda casa: bruciato dalla Roma che aveva fatto rinascere, il tecnico francese Rudi Garcia ha rivelato di avere scoperto che a Trigoria Totti ha anche un ufficio, e una scrivania, e un potere che esercita non tanto sui compagni, tutti suoi fedelissimi, ma spesso sugli allenatori; ne sanno qualcosa – oltre a Rudi – Montella, Luis Enrique e, prima, lo stesso Luciano Spalletti, che andò a svernare…in Russia per dimenticare; e per ricordare, al suo recentissimo ritorno nella Capitale, lo sgarbo ricevuto dall’ormai storicizzato Capitano.
E qui nasce l’ultimo (o il penultimo?) capitolo della storia di Totti: Spalletti lo ritiene pensionabile, afferma il primato della squadra sull’ancorché prestigioso singolo, lo tiene in panchina o lo lascia in tribuna; la sua scelta è premiata dalla critica titolata e dalla società, finché quasi a sfidarlo lo rispedisce in campo per frattaglie di tempo, pochi minuti per dire “nun c’è trippa pe’ gatti”, ma Totti è non solo trippa, ma filetto, non più robetta da Testaccio ma pietanza raffinata: e torna al gol, magicamente, ai gol che contano tre punti, e la Roma e Roma ridono e piangono per l’emozione, ritrovando la storica passione per un imperatore pacifico che segna e salta il fosso e corre a petto ignudo verso la Curva Sud sparando e ricevendo baci, in un’orgia di sentimenti resuscitati. In altre città d’Italia, il giocatore simbolo viene eletto «onorevole», come Bulgarelli a Bologna, più di sovente "sindaco", per assegnargli il primato cittadino: a Roma no, a Totti gli vogliono tanto bene che non lo faranno mai sindaco, né presidente, né imperatore. E’ il mondo intero che gli ha ormai riconosciuto una classe infinita e l’unico titolo che conta: Capitano.
Auguri, Francesco.