Bologna, 30 maggio 2024 – “Il pareggio non esiste". Agostino Di Bartolomei l’ha sempre saputo. Anche quando in serie A il punto conquistato (all’epoca dei due punti a vittoria) significava muovere la classifica. L’ha compreso appieno però, nella notte dell’Olimpico, una notte che doveva essere una festa (tutto troppo bello per essere vero) la finale della Coppa Campioni della sua Roma (lui che era nato a Tormarancia) in casa contro il Liverpool. Lui che dopo l’1-1 alla fine dei tempi supplementari calciò di potenza il primo rigore (che l’ottavo re di Roma, Falcao, si rifiutò di tirare) e segnò. Ma che non bastò. Lui che ripensò a quella notte del 30 maggio 1984 per altri dieci anni, forse quasi ogni giorno della sua vita. Quella sconfitta (ai rigori) che come una ferita lo lacerò dal di dentro fino a quando non decise, esattamente due lustri dopo quella partita, di uccidersi.
Il pareggio non esiste è una celebre affermazione di ’O Rey, il più grande, Pelè. Paolo Sorrentino inserì quella frase nei titoli iniziali del suo debutto cinematografico L’uomo in più (2001). Nel film si raccontano due omonimi, due Antonio Pisapia, un calciatore (Andrea Renzi) che chiude la carriera e che cerca di trovare un posto in quel mondo che non riconosce più e un cantante (Toni Servillo) che toccò il successo, il cielo con un dito, ma planò miseramente, fino a finire in carcere. Vite parallele.
Il calciatore – Sorrentino non l’ha mai nascosto – è ispirato alla vicenda personale (più che sportiva), anzi intima di Agostino Di Bartolomei. L’abisso per un calciatore che aveva conosciuto la ribalta e l’impossibilità di rimuovere le ferite del passato. L’impossibilità anche di ripartire. Il vero Di Bartolomei, come il Pisapia del film, ci provò, ricominciando proprio dai ragazzini. Un calcio più genuino fino a quel colpo di pistola. Chi pensa solo che sia qualcosa di calcistico, si sbaglia. Inevitabilmente. Di Bartolomei è, a suo modo, un eroe tragico. Un eroe tragico così forte nella sua figura che continua a stagliarsi ancora all’orizzonte, anche dopo trent’anni, da ispirare un film. O perfino una canzone, come nel caso di Antonello Venditti.
Ma andiamo con ordine. "Con Paolo parlammo molte volte di Di Bartolomei – raccontò Andrea Renzi in un’intervista per il ventennale del film –. Lui aveva solo Nils Liedholm che lo seguiva e lo consigliava con grande affetto, ma non riusciva a stare dentro il mondo del calcio, non ci si trovava. Una caratteristica che portammo dentro L’uomo in più fu proprio la sua assoluta incapacità di scaltrezza, di furbizia, di quel mestiere che solitamente hanno i calciatori".
Di Bartolomei, almeno da calciatore, proprio dal suo Maestro Lieldhom aveva preso quell’imperturbabilità di fronte agli eventi. E la capacità spesso di far girare le cose a proprio favore, di trasformarle. Con un colpo, con un’intuizione. Tutto quello che nella seconda vita, in un pallone che era profondamente cambiato, non gli riusciva più. E quel 30 maggio 1984 sempre addosso, sempre in testa, come uno spartiacque.
Quella notte Antonello Venditti suonò per la prima volta Notte prima degli esami che era stata concepita qualche mese prima. "Notte, di sogni, di coppe, di campioni". Che cantata così, tutto d’un fiato, è davvero il sogno che si trasforma nell’incubo più feroce. Perché il pareggio non esiste e anche i conti con la vita non portano quasi mai pari. Sono sempre dispari.
Proprio Sorrentino disse al riguardo dell’Antonio Pisapia calciatore e del Di Bartolomei che lo ispirò per il suo film: "Con Di Bartolomei ho fatto una scoperta sconvolgente. Un uomo che fa un mestiere normale e si suicida è un avvenimento nell’ordine delle cose; ma un calciatore che si suicida è un fatto eccezionale. Ho avuto voglia di raccontare questa fase in cui la vita smette di essere facile e smette di essere un gioco".
Antonello Venditti invece, c’era quella notte all’Olimpico. E scelse di scrivere proprio il 30 maggio, ma del 2007, la canzone Tradimento e perdono . "Ricordati di me, mio capitano – canta –. Cancella la pistola dalla mano". Ma quella pistola è impossibile da rimuovere. Anche il figlio Luca, ex responsabile dello sport per il Pd, solo da poco, rivolgendosi a lui, ha ricominciato a chiamarlo papà. Aveva undici anni, quando il padre si uccise. "Credo che Agostino sia la rappresentazione del potenziale fallimento che interroga tutti – disse Luca tempo fa in un’intervista – e di fronte al quale rimaniamo senza parole o senza fiato. Prenderne atto attraverso una persona mitizzata nel luogo più incontaminato della nostra infanzia, il gioco, considerato una sorta di eroe del mondo in cui siamo stati e ci fa sentire ancora bambini, è una circostanza che atterrisce, ma suscita anche tanta pietà".