Mercoledì 20 Novembre 2024
MONICA GUZZI
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A 50 anni dalla valanga azzurra. L’amarcord di Thoeni: "Allora ci divertivamo di più"

L’ex campione altoatesino: "Qui sciare era l’unica possibilità ma era tutto diverso, si stava bene". Gli atleti oggi? "Pieni di patacche. Non hanno più tempo a causa degli impegni con gli sponsor"

Gustavo Thoeni, oggi 73enne

Gustavo Thoeni, oggi 73enne

Trafoi (Bolzano), 31 marzo 2024 – L’antica locanda dei nonni si trova al quarantaseiesimo tornante dello Stelvio, a 1533 metri d’altezza. Oltre la maestosa facciata di quello che oggi è l’hotel Bella Vista, 4 stelle superior gestito dalla famiglia, una distesa di neve e il muro delle cime più alte con i loro ghiacciai, fra i tre e i quattromila metri: l’Ortles, il Madatsch e lo Stelvio. Qui,dove tedesco, italiano e romancio si incontrano e le lingue e le culture si confondono, entriamo nel regno di Gustav Thöni, il “nostro“ Gustavo Thoeni, leggendaria bandiera dello sci azzurro.

A Trafoi, frazione di poche anime in provincia di Bolzano e a pochi passi dal cielo, negli anni Settanta potevi diventare solo sciatore o albergatore. Come il padre Georg, maestro di sci e gestore dell’albergo ottocentesco della moglie Anna Ortler, così devoto alla causa della neve da partecipare al finanziamento della prima funivia del paesino. Ma Gustav è andato oltre: è diventato un mito. E oggi, a 73 anni, si gode la sua leggenda. Perché senza di lui Trafoi sarebbe solo un puntino su una carta geografica. "Un tempo, in fondo a questa distesa di neve, c’era il Grand Hotel, arrivavano i nobili e c’erano fino a 300 persone. Poi è andato a fuoco nella prima Guerra mondiale", racconta. Oggi gli amanti dello sci vengono nell’hotel gestito dalla figlia Petra col marito Stephan per conoscerlo, sciare con lui e visitare la galleria-museo che ne racconta i successi, quattro Coppe di cristallo (Mondiali) fra il 1971 e il 1975, tre medaglie alle Olimpiadi invernali di Sapporo, due a Innsbruck, poi 24 vittorie di Coppa del Mondo, 22 argenti, 18 bronzi, 300 gare in tutto.

Come è iniziata?

"In inverno qui sciare era l’unica cosa che si poteva fare. Lo sci mi piaceva, stavo sempre all’aperto. Allora era tutto diverso, non c’erano sci club, si stava tutti assieme. Facevamo tutto noi, battevamo la piste coi piedi, facendo la scaletta. In alcuni punti qui facevamo i 60-70 chilometri all’ora, passando vicino alle piante. E d’estate si sciava allo Stelvio, andavo con mio padre e davo una mano sullo skilift. D’estate saliva anche Zeno Colò, c’erano 200 maestri".

E poi le prime gare.

"Eravamo sempre insieme, io e mio cugino Rolando, avevamo la stessa età. Andavamo a scuola al collegio di Merano. A 15-16 anni il Trofeo Topolino, poi siamo entrati nella squadra B. Si girava, ho fatto due anni di commerciali dopo le medie e poi non sono più andato a scuola".

Nel dicembre 1969, la prima vittoria in Coppa del mondo in Val d’Isère e non si è più fermato. Qual è stato il segreto?

"Allenarsi, lavorare, era tutto naturale nelle mie specialità, slalom e gigante".

Ma non ha mai disdegnato la libera, vincendo persino l’oro nella combinata alle Olimpiadi del ’72. Mai avuto paura?

"Paura no, rispetto sì. Erano piste battute a piedi. Come protezione c’erano i blocchi di paglia. Poi ci pioveva sopra, gelavano e diventavano un muro".

E quando vinceva, Trafoi faceva festa.

"All’epoca erano un centinaio di abitanti, oggi meno. Avevo il televisore ma non c’era segnale. Ci hanno messo il ripetitore nel ’72, per le Olimpiadi di Sapporo. Prima andavano tutti a vedere la televisione al bar giù in paese, a Prato allo Stelvio".

E con lei è nato il mito della valanga azzurra. Come è stato ritrovare i vecchi compagni nel suo albergo, a 50 anni dalla cinquina di Berchtesgaden?

"È stata un’emozione. Si era rivali in pista, ma amici fuori. Una competizione utile a creare questa grande squadra. Per i 50 anni sono arrivati tutti, da Gros a Plank, c’era anche Tomba".

Tomba. Per 7 anni ne è stato l’allenatore. Come facevate ad andare d’accordo, lei riservato, lui così esplosivo? Anche il fisico era molto diverso.

"Io ero calmo, Alberto amava la confusione, ma era già un fuoriclasse. Mi sono un po’ adattato, e quando era il momento di allenarsi lui sapeva capire. Noi giravamo ancora attorno ai pali, poi è arrivato il palo snodato e anche un po’ di massa serviva".

Siete rimasti molto legati?

"Non mi chiama più di notte, ma quest’anno al mio compleanno mi ha mandato un messaggio di auguri a mezzanotte e dieci".

Cosa è cambiato da allora?

"Allora c’erano pochi sponsor e pochi soldi, ma anche meno pressione. Oggi gli atleti sono pieni di patacche, non hanno più tempo perché devono onorare tutti gli impegni con gli sponsor. E poi ci sono tante tivù, tante discipline, quindici solo nello sci. Ci si ricorda di noi dopo 50 anni proprio perché allora eravamo solo noi lo sci".