Roma, 27 maggio 2018 - Chris Froome vince il Giro d'Italia 2018, passerella a Roma per il campione britannico nella tappa 21, l'ultima. Ecco i voti di Angelo Costa alla Corsa Rosa.
Giro d'Italia 2018, vince Froome. Classifica finale e risultati della tappa 21
10 e lode a Froome. Parte col peso del caso Ventolin sulle spalle, cade nella ricognizione della crono inaugurale e ricade a Montevergine, soffre ma non molla perché vuole onorare il Giro. Si rialza vincendo sullo Zoncolan, ribalta il Giro nell’altro tappone che conta consegnandosi alla leggenda con 80 chilometri di fuga solitaria dal colle delle Finestre in poi. Vince il terzo grande giro consecutivo: serve altro?
10 al Giro. Mai un giorno di noia, vincitori di tappa di fama presente e futura, quattro maglie rosa nobili (Dumoulin subito, poi Dennis, Simon Yates e infine Froome). Da Israele a Roma, passando per Dolomiti e Alpi piemontesi, la corsa della pace non ha avuto pace: come tutte quelle vinte da un campione vero, alla fine è stata davvero magnifica.
9 a Dumoulin. E’ il più vicino a Froome, con meno di un minuto di distacco in una corsa che ha scavato solchi profondi fra un concorrente e l’altro. Non ha niente da rimproverarsi, anche se paga a caro prezzo l’unico errore in tre settimane: aspettare Reichenbach, gregario di Pinot, nella discesa del colle delle Finestre gli ha fatto perdere l’attimo giusto per sperare di riavvicinarsi a Froome.
8 a Lopez. Al primo Giro è già sul podio: profuma di premonizione. Lo chiamano Superman per via di un tentativo di rapina sventato in Colombia mentre si allenava, ma qui fa soprattutto il ragioniere: dopo un inizio incerto per via di un paio di cadute, distilla le energie, ben consigliato da quel vecchio drago di Beppe Martinelli in ammiraglia. Venuto per studiare, ha dimostrato di saper imparare in fretta.
8 a Viviani. Non avrà la concorrenza più nobile, perché da Sagan a Greipel hanno tutti preferito il Tour, però il suo lo fa alla grande. Vince quattro volate, perdendone due da Sam Bennett, e porta a casa la maglia ciclamino: applausi. Fischi invece per la rabbiosa reazione alle critiche: se si vuol esser considerati grandi interpreti, bisogna accettare anche le grandi critiche, non solo i grandi elogi.
7 a Carapaz. Altra new entry sudamericana, arrivata addirittura dall’Ecuador, Paese dove la bicicletta è un sogno più che un’abitudine. Si presenta vincendo a Montevergine, con la scaltrezza tattica suggeritagli da quella nota volpe del suo tecnico Unzue, poi resta sempre in prima classe anche in classifica, giocandosi fino all’ultimo podio e maglia dei giovani: se questo è il debutto, meglio tenerlo d’occhio.
7 a Pozzovivo. E’ perfetto fino al penultimo tappone, pur non regalando mai un guizzo, un assalto, una tappa con la baionetta come farebbe il suo capitano assente, Nibali. Paga sul colle delle Finestre la sua giornata no: se vede svanire il sogno di conquistare il podio è anche perché sta andando forte da oltre un mese e la fatica, prima o poi, presenta il conto.
6 a Simon Yates. Corre a tavoletta per due settimane, cercando di guadagnare più che può in vista della crono, il suo punto debole. Vince tre tappe, ne lascia una sull’Etna al compagno Chaves che presto lo abbandona, ma pecca di eccesso di generosità, perché non calcola le energie: ingolosito dalla sua forma invidiabile, pesta sull’acceleratore anche nella crono, finendo per bruciare il suo giovane motore.
6 ai team invitati. Esclusi gli israeliani dell’Academy, pimpanti sulle strade di casa e nella settimana finale con l’eterno Plaza, delle italiane brilla l’Androni, in fuga tutti i giorni, si fa notare spesso la Bardiani Csf, mentre la Wilier Triestina non lascia traccia. Chi più chi meno, fanno tutte il loro dovere, provando a lanciare qualche faccia nuova che vedremo presto su palcoscenici di maggior rango.
5 all’Italia. Quattro tappe con Viviani, una quinta con l’emigrante Battaglin. Nei primi dieci di classifica soltanto Pozzovivo e Formolo, a debita distanza dal podio, come in passato era accaduto solo cinque volte: nient’altro. Nella corsa che gli italiani amano di più, c’è poco di italiano: mai in partita Aru, bravi a palleggiare gli altri, in attesa che spunti qualche giovane si sente l’assenza del bomber di peso che fa sognare le folle. No Nibali, no party.
4 a Pinot. Corre col bilancino, attento ad abbuoni e piazzamenti, per cercare quel podio che un anno fa aveva sfiorato. Non regala nulla allo spettacolo, non sfrutta nemmeno occasioni come quella di Sappada, dove non aiuta Dumoulin e non migliora neppure la sua classifica: in forma dal Tour of The Alps, arriva all’ultima settimana in riserva, crollando nella tappa di Cervinia e chiudendo il suo Giro all’ospedale.
3 ad Aru. Non pervenuto. Manda segnali preoccupanti su Etna e Gran Sasso, li conferma sullo Zoncolan, prima di crollare il giorno dopo sulla strada per Sappada. Non è vero Aru quello che si stacca da venticinque corridori, non è l’Aru che ci si aspettava quello che, da leader dichiarato del nuovo team, si ritrova schiacciato dalle responsabilità. ‘Devo resettare’, dice abbandonando per la prima volta un grande Giro: riuscirci in fretta sarà il primo bel risultato.
2 agli elettrotecnici. Guai a spiegare il ciclismo con le strategie più semplici: di ogni prestazione si analizzano i dettagli, misurando la potenza in watt e le salite in vam (velocità ascensionale media, per i meno addetti). Poi, all’improvviso, dentro questa scuola Radioelettra applicata al ciclismo irrompe Froome con la sua impresa leggendaria tutto coraggio e cuore e fortunatamente spazza via ogni calcolo.
0 ai corridori. Protestando per le condizioni delle strade di Roma, notoriamente non buonissime, trasformano la passerella finale in una farsa: agli archivi andrà la vittoria di Sam Bennett, ma in pratica non c’è corsa. Più che discutere con la giuria in mondovisione, Froome e compagnia dovrebbero chieder conto alla Commissione tecnica che ha approvato il tracciato: in fondo, è formata da gente che fino a poco tempo fa correva in bici…