Silvi Marina (Teramo), 21 febbraio 2019 - “Mi scrivono da tutta Italia. Non solo. Dal Venezuela e dagli Usa. Ricevo messaggi da connazionali che vivono all’estero e mi dicono, per fortuna me ne sono andato, questa giustizia non funziona. La gente non ha fiducia, ecco qual è il commento più ricorrente”. Alessio Feniello, il papà di Rigopiano che nella mente di tutti richiama ‘la multa al dolore’, sarà processato il 26 settembre per aver violato i sigilli della zona rossa. Là, tra le macerie dov’è morto anche il suo ragazzo - le vittime sono state 29 - lui era andato per un momento di raccoglimento con la moglie Maria. Condannato a pagare 4.550 euro, ha fatto opposizione e ha appena ricevuto il decreto di giudizio immediato. Più di due mesi prima, il 16 luglio - è trapelato il giorno dopo - è stata fissata l’udienza preliminare per gli indagati, 24 persone e la società del resort.
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“Chi ha ruoli pubblici doveva essere rimosso non si capacita papà Feniello –. Non è possibile che queste persone dopo due anni, con tutte le accuse nei loro confronti, siano ancora lì. Già questa è una vergogna. Poi condannano me perché ho portato i fiori dov'è stato ucciso mio figlio. Ridicolo. Andrò al processo a testa alta. E non sarò solo. C’è chi mi ha già fatto sapere di essere pronto a manifestare e a incatenarsi. Ripeterò come sono andati i fatti, posso dimostrarlo. Ero con mia moglie che però è stata archiviata. Perché due pesi e due misure?”. È la stessa domanda dell’avvocato Camillo Graziano, che assiste fin dall’inizio la famiglia Feniello. Come si spiega, un uomo di legge, questo doppio trattamento? “Il giudice ha considerato scusabile l’aver violato i sigilli in un certo stato emotivo per portare i fiori, quindi a Maria Feniello è stato applicato il 131 bis sulla tenuità del fatto - ragiona il legale –. Perché non è scattata la stessa clemenza per Alessio? È quello che vogliamo capire. Credo che il processo servirà esclusivamente a stabilire che anche lui ha agito nello stesso stato d’animo della moglie. Non voleva rubare legna, raccogliere souvenir macabri, farsi selfie su un luogo che ha destato tanto clamore sui media. Semplicemente, anche lui cercava un momento di raccoglimento”. Ma ci vuole un processo, per dimostrare il dolore? “A quanto pare sì - conclude il legale –. Era l’unica nostra possibilità per provare le intenzioni di quel gesto”.