Siamo sicuri che siano passati solo tre anni? Perché onestamente sembra un secolo. Eppure nell’albo d’oro c’è scritto che siamo noi, i campioni in carica, c’è stampato a fuoco che nel 2021 l’abbiamo alzata noi quella coppa, che siamo stati i migliori. E gli inglesi ancor s’inca...volano, per spostare oltre Manica la famosa canzone di Conte (Paolo, non Antonio).
Il tempo mette le cose in prospettiva, lo sport è vero fino all’alba perché ogni giorno si gioca una partita nuova, ed è giusto riconoscere che in quel momento lì, in quei giorni lì, Mancini e i suoi ragazzi riuscirono a compiere un miracolo sportivo. Di quelli che ogni tanto nel calcio riescono, più spesso in una partita secca che in un torneo. E quindi non è giusto sminuire oggi l’impresa di Wembley, non sarebbe corretto derubricare tutto, come fanno per esempio i rancorosi detrattori di un fenomeno come Ancelotti, a qualche settimana fortunata.
No, quella notte a Wembley l’Italia vinse solo ai rigori, ma dopo essersi meritata tutto. Proprio perché il tempo sa mettere in fila le dimensioni dei risultati, considerando che prima e dopo non siamo nemmeno riusciti a qualificarci per i mondiali, è onesto riconoscere che in quelle settimane il ct, poi passato ai petrodollari, e il suo gruppo seppero realizzare la nostra specialità calcistica storica: compattarsi, stare uniti, aiutarsi per sopperire ai limiti tecnici (perché di squadre più forti ce n’erano diverse, compresa probabilmente l’Inghilterra battuta in finale). Riuscirono a fare più del massimo per portare a casa un risultato storico. A volte non basta, quella volta bastò.
È a suo modo altamente simbolico che sia stato un difensore come Bonucci, un prototipo dell’italiano, a segnare il gol che ci ha tenuti in vita. È ugualmente significativo che quel trofeo l’abbiamo alzato grazie alle paratone di Donnarumma, delle quali forse ci siamo dimenticati troppo presto.
Se gli ultimi campionati non ci avessero dimostrato che possiamo evolverci anche noi, se non ci fossero le varie Atalanta, Bologna e anche la stessa Inter a dimostrarci che si può vincere perché si vuole comandare il gioco, verrebbe da dire che forse è il nostro destino, farcela giocando ’all’italiana’ anche se in un modo declinato con vestiti più moderni. Sperando nello stellone o nell’uomo della provvidenza, allora fu la capacità di Mancini di spremere il massimo della qualità da un gruppo che meritò il trono d’Europa soprattutto per l’impegno e la capacità di fare squadra.
E in questo senso, oltre a rivalutare il lavoro del ct marchigiano in modo obiettivo senza la rabbia che ha seguito i giorni del suo addio, forse da quella vittoria dovremmo imparare tutti qualcosa. A lavorare di squadra, facendo meno i fenomeni.