Mercoledì 5 Febbraio 2025
MATTIA GRANDI
QN X le Donne

L’uomo e l’idea di patriarcato: "Dall’operaio allo specialista. Ecco l’identikit di chi abusa"

Nel documentario di Massari per lo Spi-Cgil la storia di un padre sulla strada del recupero. Lo psicologo Fanizza: "In molti colpiscono quando sentono la loro mascolinità a rischio" .

Nel documentario di Massari per lo Spi-Cgil la storia di un padre sulla strada del recupero. Lo psicologo Fanizza: "In molti colpiscono quando sentono la loro mascolinità a rischio" .

Nel documentario di Massari per lo Spi-Cgil la storia di un padre sulla strada del recupero. Lo psicologo Fanizza: "In molti colpiscono quando sentono la loro mascolinità a rischio" .

La violenza sulle donne, da quella psicologica o economica fino all’estremo del femminicidio, appare ai più una questione difficile da comprendere. E la società nel suo complesso fa fatica a capire come intervenire, al di là dell’inasprimento delle pene dopo che il delitto è stato commesso. Il Coordinamento donne dello Spi-Cgil, il sindacato dei pensionati e delle pensionate, da anni lavora sulla comprensione e sul contrasto di questi fenomeni.

Tra le donne abusate, infatti, ci sono molte anziane e la necessità di un intervento rientra nelle azioni per difendere e trasmettere ai più giovani i valori conquistati nel tempo dalle donne. Il problema centrale è legato all’uomo abusante.

Un recente documentario, realizzato per lo Spi-Cgil dal videomaker Stefano Massari, va dritto al punto intervistando un uomo che ha commesso abusi e poi si è sottoposto a un percorso di recupero.

Un processo di riabilitazione seguito in prima linea dallo psicologo e psicoterapeuta Michael Fanizza del Centro ‘Liberiamoci dalla violenza’ dell’Ausl di Modena e da due giovanissime studentesse della Rete degli Studenti di Bologna, Adriana Bracciale e Mila Vaccari. Durante il reportage, gestito in forma anonima per tutelare la privacy dell’uomo e quella della sua famiglia, è emersa una frase shock: "Sono arrivato a 65 anni che certa violenza per me non era violenza. Io a 13 anni e mezzo andavo a macellare le mucche, sono cresciuto in un mondo così".

Ma da dove viene questo ‘sovvertimento’ di valori rispetto alla vita umana? Lo spiega il dottor Fanizza: "Come esseri umani quando percepiamo un pericolo o una minaccia ci attiviamo con un sistema di difesa – analizza –. La minaccia percepita può essere legata alla propria identità, alla propria mascolinità, alla difficoltà di accedere ai propri vissuti emotivi, alla propria idea di potere rispetto alla relazione con la donna. Sono tutti fattori che possono essere sia personologici, familiari, culturali e sociali ma di base fanno percepire una minaccia. Tant’è che spesso gli uomini dicono che si sono difesi".

Non solo. "Io sono sempre stato un carattere iper-impulsivo – ha continuato il ‘paziente’ intervistato – ma mia moglie me l’aveva detto un anno prima: sei in difficoltà, devi trovare qualcuno che ti aiuta. Quello che m’ha fatto aprire gli occhi è stata mia figlia. Un giorno, quando è arrivata la denuncia dei carabinieri, m’ha detto: ma papà se tu trovassi uno che scrive di me quello che hai scritto di mamma, tu cosa faresti?".

Persone all’apparenza normali o soggetti chiaramente patologici? "Abbiamo dal medico all’operaio – continua il dottor Fanizza – dall’italiano doc, emiliano doc, all’extracomunitario. Non c’è un vero e proprio identikit. Il nostro cervello non fa differenza tra le tipologie di minaccia: se io mi identifico con una tipologia di mascolinità che è definita dal patriarcato, su come deve essere l’uomo e il rapporto rispetto alla donna, e quindi identifico la mia identità con questo tipo di credenza, quando viene messa in discussione posso percepire una minaccia". Il percorso di recupero dura circa un anno: "Abbiamo visto che quello che cambia in quasi tutti i percorsi portati alla fine è la cessazione della violenza fisica – prosegue Fanizza –. Rispetto agli aspetti più sottili come la violenza psicologica o emotiva gli uomini fanno più fatica. Assistiamo 80-85 uomini all’anno e vediamo anche persone di una fascia d’età più elevata perché la violenza non ha età".

Ma cosa dicono di se stesse le giovanissime generazioni? Parla Adriana: "Il modello è una donna che non si lascia intimorire, che riesce a superare le difficoltà e anche i pregiudizi, le accuse infondate e continua a camminare a testa alta". E ancora: "Crescere nell’era dei social – aggiunge Mila – come giovani ragazze di sicuro non è un’esperienza facile. Il confronto costante con gli altri e, di conseguenza, la paura del fallimento, di non essere mai abbastanza all’altezza per i canoni della società, per i professori, per i genitori, per gli amici. Viviamo in una società che già da subito, fin da ragazzi, ci insegna la competitività. È difficile decostruire questo modello, ma ci vuole soprattutto la consapevolezza. Per rispondere all’individualismo è importante ricordarci che la nostra storia prima di studenti poi di lavoratori è profondamente legata a un sentimento di collettività. Fare associazionismo, attivarsi, confrontarsi con i propri pari e sviluppare una coscienza sia dei propri privilegi sia delle discriminazioni alle quali siamo soggetti".