di Roberto Brunelli
Anche a Berlino è tortuosa la via della ’buona energia’. O se non altro è lastricata di ottimi propositi e di difficili realizzazioni. Prendete la cancelleria federale, finora abitata da Olaf Scholz: ebbene, a dispetto della grande ’svolta energetica’ avviata dalla ’locomotiva d’Europa’ per trasformare il sistema fossile-nucleare in un sistema energetico sostenibile basato sulle rinnovabili, a segnare un imbarazzante ritardo in proposito è proprio il grande edificio a due passi dal cupolone del Reichstag che ospita il governo tedesco. Infatti, come rivelato dalla Zeit, la cancelleria federale viene ancora riscaldata a petrolio, il combustibile ’sporco’ di cui la Germania intende disfarsi rapidamente: il passaggio, annunciato per lo scorso settembre, al cosiddetto ’teleriscaldamento’ sul quale si fonda il mix energetico di Berlino e che consiste in gran parte di gas naturale, è ancora fermo ai nastri di partenza, causa lavori che vengono costantemente interrotti.
Una volta per visite di capi di Stato, una volta per grandi eventi sportivi, altre volte per poderose ricorrenze storiche. Certo, tutto sommato si tratta di un piccolo caso, ma è emblematico alla luce della posta in gioco: l’obiettivo della transizione energetica in Germania è di aumentare la quota di energie rinnovabili nel consumo di elettricità fino all’80% entro il 2050 (all’inizio l’obiettivo era il 2030, poi ritenuto irrealizzabile per motivi più che altro politici), di ridurre nello stesso periodo il consumo di energia primaria del 50% rispetto al 2008 e di ridurre le emissioni di gas serra dell’80-95% rispetto ai livelli del 1990, in linea con gli obiettivi Ue.
In pratica, almeno il 60% del consumo di energia dev’essere coperto dalle rinnovabili entro meno di 26 anni: si tratta di obiettivi fissati prima del disastro di Fukushima, che dette una spinta formidabile all’uscita progressiva della Germania dal nucleare, decisa con una mossa considerata abbastanza sorprendente da Angela Merkel. Oggi, però, per ’l’egemone riluttante’ (come viene spesso chiamata la Repubblica federale) la situazione è molto diversa rispetto all’espansiva epoca merkeliana. Il paese è nel pieno di una tempesta perfetta che ha proprio l’energia al suo centro: prima la pandemia, poi la guerra in Ucraina a partire dal febbraio 2022, e come se non bastasse le tensioni con Pechino hanno creato le condizioni di un vero e proprio corto-circuito dell’economia tedesca.
Non foss’altro perché l’imponente stretta dei flussi globali di prodotti semilavorati e materie prima, anche e soprattutto quelle provenienti dalla Cina, ha avuto come effetto un deciso aumento del costo medio di moltissimi prodotti. Allo stesso tempo, l’ingresso dei tank russi in Ucraina ha mandato in tilt, nel 2022, la fornitura di gas: il caso da manuale è stato il ’congelamento’ della pipeline dal costo multimiliardario Nord Stream 2, che avrebbe dovuto decuplicare il flusso di gas a buon prezzo dalla Russia alla Germania. Un progetto a cui Merkel prima e Scholz poi avevano tenuto fede per anni, nonostante la crescente e sempre più netta opposizione degli Stati Uniti in primis.
Se da una parte il ministro all’economia e all’ambiente Robert Habeck ha sudato sette camicie per trovare in tempo record fonti di gas alternative, per dire come la prese l’establishment industriale basta ricordare le parole del Ceo della Basf, Martin Brudermüller: "Vogliamo consapevolmente distruggere la nostra intera economia?". Ma il vortice dei paradossi non è certo finito qui.
L’aumento del prezzo di elettricità e gas ha spinto il governo di Berlino a varare un piano di sussidi da 12 miliardi e, non bastasse, la contemporanea chiusura delle ultime centrali nucleari ha provocato uno smottamento che fino ad oggi è stato compensato con un aumento nei consumi di carbone – storicamente una risorsa-simbolo nell’evoluzione industriale tedesca – che pure con la transizione energetica è destinata ad uscire dall’orizzonte, teoricamente, entro il 2030: un processo che ha portato con sé immensi progetti di parchi eolici, con annessi aiuti governativi nonché un aumento dei costi nella gestione della rete elettrica.
Fin troppo facile capire, dunque, dove si allignano le diverse cause che hanno trascinato la Germania alle ’piccole recessioni’ del 2023 e del 2024. E c’è chi scommette che è più alla riduzione del Pil piuttosto che al calore dei termosifoni che ci si sta scervellando nei grandi uffici con vista Porta di Brandeburgo alla cancelleria federale.