Troppo ossigeno provoca gravi malattie ai neonati prematuri: la “placenta artificiale” può evitarle

Promettente studio dell’Università di Pisa contro gli effetti dannosi dell’iperossia nei neonati pretermine

di LUCA BOLDRINI
3 dicembre 2024
pisa

La terapia intensiva neonatale pisana e, nel tondo, Luca Filippi

Pisa, 3 dicembre 2024 – L’ambiente in cui il feto cresce e si sviluppa è “dinamicamente ipossico”, cioè con una scarsità di ossigeno rispetto all’ambiente esterno. L’esposizione a un contesto molto più ricco di ossigeno (iperossia) come quello esterno è un problema per i nati pretermine perché l’iperossia altera lo sviluppo postnatale degli organi e contribuisce alle malattie legate alla prematurità. Malattie gravi come la retinopatia del prematuro, l’enterocolite necrotizzante, la diplasia broncopolmonare, la leucomalacia periventricolare.

Oggi uno studio dell’Università di Pisa sugli effetti dannosi dell’esposizione prematura all’eccesso di ossigeno dei neonati pretermine apre nuovi scenari che possono contarstare o addirittura prevenire l’insorgenza delle malattie correlate: si tratta di una stimolazione farmacologica del recettore β3-adrenergico, che ha un ruolo indispensabile durante la vita intrauterina del feto, visto che gli permette al feto di vascolarizzarsi, adattarsi e sopravvivere in un ipossico.

Gli studi preclinici su modelli sperimentali sono stati appena pubblicati  da un gruppo multidisciplinare di ricerca dell’Azienda ospedaliero-universitaria pisana e dell’Università di Pisa insieme ad altri centri (Università di Firenze e Irccs Meyer) e uscito sulla rivista di farmacologia Medicinal Research Review. La pubblicazione illustra non solo la nuova interpretazione dei meccanismi che portano i pretermine a sviluppare alcune caratteristiche malattie, ma anche una strategia terapeutica che potrebbe ricreare virtualmente l’ambiente dell’utero materno, una sorta di placenta artificiale farmacologica, tale da creare di nuovo condizioni adatte a uno sviluppo “normale”.

Una ricerca che parte da lontano, sempre a Pisa ma circa 14 anni fa, indirizzata a testare l’efficacia del propranololo (un beta-bloccante) nel contrastare la progressione della retinopatia del prematuro. In questo contesto emerse in modo sempre più evidente la sensibilità dei recettori adrenergici β3 ai livelli di ossigeno ambientale.

A quel punto la ricerca si divise in più gruppi di lavoro, tutti in Toscana, che puntarono sul ruolo chiave dei recettori nell’induzione della crescita embrio-fetale e sulla ricerca oncologica, diretta a trovare un loro potenziale antagonista (questi recettori vengono infatti impiegati anche dalle cellule tumorali per vascolarizzarsi, ingannando i meccanismi di difesa dell’ospite).

“Data la rilevanza delle patologie interessate, la fragilità dei pazienti coinvolti e l’innovatività di questo approccio – dice il direttore dell’Unità operativa di Neonatologia dell’Aoup, Luca Filippi, associato di Pediatria generale e specialistica all’Università di Pisa nonché prima firma dello studio - l’auspicio è che quanto finora emerso su modelli sperimentali possa presto traslarsi con successo all’uomo”