Tumori, un nuovo farmaco potrebbe ridurre la progressione della leucemia linfatica cronica
Ogni anno in Italia ci sono 3mila nuovi casi. Secondo lo studio Amplify, nel 77% dei pazienti trattati con i farmaci ‘acalabrutib’ e ‘venetoclax’ il cancro non è progredito. Cosa dicono i risultati presentati a San Diego (Usa): lo racconta Alessandra Tedeschi del Niguarda di Milano
Un nuovo trattamento orale potrebbe cambiare lo standard di cura della leucemia linfatica cronica. È il farmaco ‘acalabrutinib’ di AstraZeneca che, se assunto in combinazione con il ‘venetoclax’, sembra migliorare in modo significativo e clinicamente rilevante la sopravvivenza, senza che la malattia progredisca. Il 77% dei pazienti sarebbe libero da progressione a 3 anni.
Lo dice lo studio di Fase 3 Amplify, che ha messo a confronto i risultati del nuovo farmaco con la chemio-immunoterapia standard usata per la cura di pazienti adulti con leucemia linfatica cronica non trattati in precedenza.
Tremila casi all’anno solo in Italia
“'Ogni anno, in Italia, si stimano circa 3mila nuovi casi di leucemia linfatica cronica. È una neoplasia ematologica caratterizza dall'eccessiva produzione di un particolare tipo di globuli bianchi, i linfociti B maturi - spiega Alessandra Tedeschi, specialista ematologa della Struttura complessa di Ematologia, Asst Grande Ospedale Metropolitano Niguarda di Milano, e uno degli autori dello studio Amplify -. La malattia ha un andamento clinico eterogeneo, infatti una percentuale significativa di pazienti non presenta sintomi, arriva alla diagnosi in seguito a controlli eseguiti per altri motivi e rimane stabile per molto tempo, senza necessità di terapia. In altri pazienti, invece, la malattia progredisce e determina sintomi come anemia, ingrossamento dei linfonodi, piastrinopenia o ingrossamento della milza. In questi casi diventano fondamentali i trattamenti. I pazienti sono, nella maggior parte dei casi, anziani, spesso con comorbidità determinate anche dall'età avanzata".
La nuova terapia
“Un tempo la chemio-immunoterapia - continua Tedeschi - rappresentava lo standard di cura in prima linea, ma oggi è superata dalle terapie mirate, costituite dagli inibitori di Btk e di Bcl-2, anche in combinazione con altri farmaci. In particolare, acalabrutinib, inibitore di Btk di seconda generazione, ha già evidenziato benefici significativi in termini di efficacia e tollerabilità a lungo termine come monoterapia nel trattamento in prima linea.
I risultati dello studio presentati a San Diego
Questi risultati, presentati al Congresso 2024 dell'American Society of Hematology (Ash) che si è svolto recentemente a San Diego, sono stati al centro di un incontro con la stampa, oggi a Milano. “Lo studio Amplify – si legge in una nota – premiato come 'Best of Ash 2024’, ha mostrato, al follow up mediano di 41 mesi, che acalabrutinib più venetoclax ha ridotto il rischio di progressione di malattia o di morte del 35% rispetto alla chemio-immunoterapia standard di cura”.
“Acalabrutinib più venetoclax con obinutuzumab ha dimostrato una riduzione del rischio di progressione di malattia o di morte del 58% rispetto alla chemio-immunoterapia standard di cura”, si legge ancora nella nota.
Il trial dell’Ospedale Niguarda
L'Ospedale Niguarda è il centro che, in Italia, ha arruolato il maggior numero di pazienti dello studio Amplify. Nel trial, che ha coinvolto 867 pazienti, sono stati confrontati i due regimi costituiti dalla 'doppietta' acalabrutinib più venetoclax, che è un inibitore di Bcl-2, e dalla 'tripletta' acalabrutinib più venetoclax e obinutuzumab, un anticorpo monoclonale, rispetto alla chemio-immunoterapia. “Amplify paragona quindi 3 schemi di terapia in prima linea, tutti a durata fissa: la doppietta e la tripletta, con durata del trattamento di 14 mesi, e la chemio-immunoterapia per 6 mesi”, spiega Tedeschi.
Entrambi i bracci sperimentali hanno mostrato risposte durature, con tassi stimati di pfs a 36 mesi del 76,5% per acalabrutinib più venetoclax e 83,1% con l'aggiunta di obinutuzumab rispetto al 66,5% per la chemio-immunoterapia. I pazienti hanno anche mostrato una risposta considerevole in entrambi i bracci sperimentali con un tasso di risposta globale (Orr) del 92,8% con acalabrutinib più venetoclax e 92,7% con l'aggiunta di obinutuzumab, rispetto al 75,2% con la chemio-immunoterapia.
''Nei due regimi sperimentali con acalabrutinib - sottolinea Tedeschi - si evidenzia, quindi, un netto vantaggio rispetto alla chemio-immunoterapia, che è particolarmente evidente nei malati a più alto rischio, cioè nei pazienti con immunoglobuline di superficie non mutate. Sono state osservate anche risposte globali profonde, pari a circa il 93% in entrambi i regimi con acalabrutinib, e durature. Inoltre si conferma l'alto livello di tollerabilità di acalabrutinib. Le linee guida europee Esmo raccomandano l'utilizzo di terapie a durata fissa laddove sia stata identificata pari efficacia dei trattamenti. Da un lato, grazie alla possibilità di sospendere il trattamento, si riducono gli eventi avversi a lungo termine. Dall'altro, i clinici riescono a gestire meglio la malattia, con una sensibile riduzione dei costi per il sistema sanitario. Inoltre, il regime acalabrutinib più venetoclax è completamente orale, con ulteriori vantaggi per la qualità di vita dei pazienti, che possono ridurre gli accessi in ospedale, assumendo la terapia a casa''.