In Italia si punta sulla prevenzione
Durerà quattro anni il più grande studio sui rischi cardiovascolari coordinato dal Policlinico San Donato
Anche se il 54% degli italiani ritiene di non essere a rischio, le malattie cardiovascolari sono la prima causa di morte sia in Italia (30,8%) che in Europa. Un “bias cognitivo“ che ha ricadute dirette sia sulla salute sia sul sistema sanitario, visto che le malattie cardiocircolatorie sono la prima fonte di spesa sanitaria. Fondamentale, quindi, introdurre protocolli di prevenzione innovativi in grado di identificare i soggetti più a rischio, come mira a dimostrare un progetto di studio che per i prossimi quattro anni vedrà impegnati 17 ospedali della Rete Cardiologica, coordinati dall’IRccs Policlinico San Donato.
La ricerca si chiama “Al cuore della prevenzione – Approcci integrati per una prevenzione cardiovascolare di precisione personalizzata: lo studio CVRISKIT” ed è finanziato dal Ministero della Salute con 20 milioni di euro per quattro anni: rappresenta la più importante iniziativa promossa su questo tema nel nostro paese. «Le malattie cardiovascolari – spiega Lorenzo Menicanti, direttore scientifico dell’Irccs Policlinico San Donato (capofila del progetto) e presidente della Rete Cardiologica Irccs – sono quelle che più si prestano a questo tipo di progetti, perché la prevenzione ha un effetto importante. Inoltre, molti dei fattori di rischio per le malattie cardiovascolari sono gli stessi anche per le malattie di tipo oncologico, e avere dei programmi di prevenzione seri e diffusi è fondamentale per la qualità e l’aspettativa di vita e per i costi del sistema sanitario nazionale».
Quali sono le particolarità di Cvrisk-It?
«È uno studio molto ampio che prevede il reclutamento in tutta Italia di 30mila individui sani, di età tra 40 e 80 anni e senza precedenti di “cardiovascular disease“ (malattie cardiovascolari Cvd) o diabete di tipo 2, che saranno valutati in base ai più avanzati modelli di predizione del rischio cardiovascolare. Studi così ampi sono poco diffusi anche livello europeo e mondiale, e questa è un’altra sua caratteristica. La terza peculiarità è che ci sarà uno studio genetico su un campione di pazienti».
L’obiettivo dello studio, invece?
«L’obiettivo principale del progetto è valutare l’efficacia di una modifica al paradigma valutativo di prevenzione sin qui adottato. Inoltre, lo studio definirà il profilo della popolazione su tutto il territorio italiano e gli individui che vi parteciperanno saranno poi invitati a controllare alcune caratteristiche di stili di vita e determinati fattori di rischio. Un gruppo poi, verrà studiato con la genetica e con mezzi di imaging: ecografia doppler per il controllo degli spessori di parete di carotide e Tac coronarica per verificare la presenza e la quantità di calcio coronarico (calcium score), due importanti modificatori di rischio. Lo scopo finale dello studio è quindi verificare se questo tipo di prevenzione, ovvero il guidare il paziente con il counseling, ha effettivamente una ricaduta sulla prevenzione in questi pazienti. Questa è una novità, tanto che anche dall’estero ci stanno seguendo con attenzione».
Cosa lo differenzia dalle campagne di prevenzione?
«Il problema delle campagne è che le persone non si sentono coinvolte. Invitare, invece, la popolazione a partecipare allo studio, spiegando il loro specifico profilo di rischio e continuando ad avere un contatto con ciascun individuo, coinvolgendolo direttamente nello sviluppo dello studio, dovrebbe portare ad un miglioramento importante del profilo di rischio dei pazienti importanti».
Cvrisk-it offrirà anche altri vantaggi: ce ne parla?
«Fornirà dei dati al Ministero della Salute che permetteranno di fare campagne di prevenzione mirate per ciascuna fascia di rischio. Inoltre, i risultati che si avranno su 30mila persone potranno essere sempre ristudiati e rianalizzati, con altre tecniche e in altro modo, afferendo ad apposite piattaforme e offrendo così la possibilità di ottenere risultati ancora più importanti. Quindi Cvrisk-it terminerà tra quattro anni, ma sarà la base per continuare studiare la popolazione sotto altri aspetti e con alte possibilità di conoscenza».
Rallentare i pensieri fa bene al miocardio, lo dice la scienza
L’insufficienza cardiaca abbassa la qualità della vita anche se curata con i farmaci. Lo yoga però potrebbe essere d’aiuto. A dirlo è uno studio del dottor Ajit Singh dell’Indian Council of Medical Research (ICMR), presentato al congresso internazionale di cardiologia “Heart Failure 2024“. «I pazienti che, oltre a prendere i farmaci, praticavano anche lo yoga si sentivano meglio, erano in grado di fare di più e avevano un cuore più forte rispetto a quelli che assumevano solo farmaci», spiega Singh. «I risultati suggeriscono che lo yoga – continua il medico – può essere una terapia complementare benefica nei pazienti con insufficienza cardiaca».
Lo studio ha coinvolto 85 pazienti tra i 30 e i 70 anni, in cura con farmaci, divisi in due gruppi. Uno ha continuato la terapia praticando anche pranayama (prartiche di respirazione controllata), meditazione e tecniche di rilassamento: prima sotto la supervisione di esperti, poi in autonomia una volta alla settimana per 50 minuti. Dopo sei mesi (e dopo un anno), i pazienti che praticavano yoga avevano un cuore che «pompava meglio e più sano – afferma Singh – ed erano maggiormente in grado di svolgere attività ordinarie rispetto a quelli che assumevano solo farmaci». Attenzione però: lo yoga potrebbe non essere adatto ai pazienti con insufficienza cardiaca con sintomi gravi. È importante praticare in sicurezza con maestri certificati ed eperti.