Un'infanzia segnata dalla sindrome di Wiskott-Aldrich: la rinascita di Griseldi

Dal calvario in Albania alla rinascita in Italia grazie alla terapia genica. Il drammatico racconto del 21enne: “Mi hanno dato la vita per la seconda volta”

di PATRIZIA TOSSI
3 febbraio 2025
Griseldi con la mamma quando ha iniziato la terapia genica in Italia

Griseldi con la mamma quando ha iniziato la terapia genica in Italia

Un calvario durato per tutta l’infanzia. Le prime febbri iniziate a sei mesi, poi le difficoltà a respirare e le infezioni continue che attaccavano anche gli occhi. Una vita difficile quella di Griseldi, un ragazzo albanese che ha sofferto per anni senza nemmeno sapere di avere una malattia rara: la sindrome di Wiskott-Aldrich.

Le medicine non bastano, Griseldi perde un occhio e solo con un trapianto di cornea riesce a salvare l’altro. Poi a dieci anni è arrivata la terapia genica grazie a Telethon e tutto è cambiato: “Adesso sto magnificamente bene”, racconta Griseldi, oggi 21enne, grande appassionato della Ferrari. “È stata abbastanza dura, ma adesso sto bene.I medici mi hanno dato la vita per la seconda volta”, dice felice Griseldi, che oggi vive in Italia. 

La storia di Griseldi

La malattia è rimasta senza nome per anni, mentre Griseldi trascorreva la vita tra problemi e sofferenze. La sua storia inizia in Albania nel 2003. I primi anni della sua vita sono stati un calvario. Intorno ai sei mesi ha cominciato a soffrire di febbri continue, difficoltà respiratorie, infezioni in tutto l’organismo (occhi compresi), macchie sul volto e verruche. Nessuna medicina funzionava ad alleviare quei sintomi terribili. 

La sua è una famiglia povera, di contadini: a 17 anni il figlio maggiore si trasferisce a Torino e il suo contributo serve anche per acquistare le tante medicine del fratello. Griseldi ha cercato di andare a scuola finché è riuscito, gestendo dolori e medicine, poi la situazione è diventata insopportabile per un bambino. 

“La mia infanzia è stata difficile, ma penso comunque che sia stata bella. C’erano tante cose che non potevo fare anche per via dell’occhio malato, per esempio mi dispiaceva molto non poter andare in gita con i miei compagni. Ma avevo comunque tanti amici e la mia famiglia sempre vicina”, ricorda oggi Griselda.

Griseldi è stato sottoposto alla tarapia genica quando aveva 10 anni
Griseldi è stato sottoposto alla tarapia genica quando aveva 10 anni

La svolta: “Mia sorella ha trovato il nome della malattia”  

La speranza è arrivata quando la sorella maggiore, osservando i problemi fisici di Griseldi, inizia a fare delle ricerche su internet e trova il nome della malattia: sindrome di Wiskott-Aldrich. “Lei osservava con attenzione i miei sintomi, per esempio i piedi che diventavano neri se cadevo - ricorda Griseldi - e poi cercava in Internet a cosa potevano corrispondere. È così che ha trovato il nome di questa malattia e ne ha subito parlato alla mamma. Penso che i medici albanesi non l’avrebbero mai capito”.

Il viaggio della speranza in Italia

Dopo l’intuizione della sorella, la famiglia chiede aiuto a un’associazione umanitaria e riesce ad arrivare in Italia, dove Griseldi riceve la diagnosi definitiva. Prima a Novara, poi Brescia e infine al ‘San Raffaele Telethon Institute for Gene Therapy’ (Sr-Tiget) di Milano. Ma la situazione agli occhi era ormai compromessa e i medici decidono di asportargli l’occhio destro (completamente cieco) e lo sottoppongono a un trapianto di cornea per salvargli il sinistro.

Griseldi bambino con mamma e papà
Griseldi bambino con mamma e papà

La terapia genica

Nel 2013, a Brescia gli viene comunicata una possibile speranza: la terapia genica. Nei laboratori del Sr-Tiget era in corso un trattamento sperimentale di terapia genica per la sua malattia. Anche se le spese per la terapia e il soggiorno erano sostenute da Telethon, per poter venire in Italia per il lungo periodo richiesto dal trattamento la famiglia ha dovuto vendere i suoi animali - mucche, maiali e galline che servivano a mantenere i figli - perché nessuno poteva prendersene cura, mentre la sorella è stata accolta presso un convento di suore.

“Di quel periodo ricordo che piangevo tanto” dice Griseldi. “Ero piccolo (10 anni). Mi avevano spiegato molto bene che cosa avrebbero fatto, ma non so se avessi capito proprio tutto. Non so se avessi proprio paura ma di sicuro ero molto agitato perché non conoscevo l’ambiente e le persone. Però ero anche un po’ felice, perché sapevo che ero venuto per cambiare il corso della mia vita, per non dover restare sempre malato”. Delle speranze di quei mesi, restano i disegni di Griselda: l’unica valvola di sfogo di un bambino che non poteva giocare con gli amici.

Il trattamento sperimentale

Griseldi è stato trattato con successo il 22 aprile 2013. Durante il periodo della terapia la famiglia è stata separata per sei mesi dagli altri figli: Nicolini, il figlio maggiore, è riuscito a comprare a Griseldi un tablet per fare i collegamenti skype. Per non perdere troppa scuola, ha continuato durante la degenza a studiare sui libri albanesi insieme alla traduttrice che ha supportato la famiglia nei suoi mesi al Tiget.

Durante questo periodo Griseldi ha cominciato a imparato un po’ di italiano, che ora capisce e parla bene. “Adesso sto bene, sia rispetto alla malattia sia perché ho superato le difficoltà dell’adolescenza. Da adolescente ho vissuto un periodo di difficoltà, ero molto insicuro, ma crescendo ho imparato ad affrontare le situazioni, a cavarmela da solo”, afferma Griseldi.

Griseldi con la mamma oggi che ha 21 anni
Griseldi a 21 anni con la mamma durante un controllo medico

La certezza: “Mi hanno salvato”

Nel 2022 la famiglia si è trasferita definitivamente in Italia e ora Griselda qualche lavoretto per potersi iscrivere a una scuola di turismo alberghiero e si impegna “a essere una brava persona, anche per onorare la seconda vita che mi è stata data la possibilità di vivere”.

Ma il contatto con i medici non si è interrotto: Griseldi continua a tornare periodicamente a Milano per i suoi follow-up. “Ogni volta è una bella sensazione: è come tornare a casa, anche se si tratta di un ospedale. Ho la possibilità di incontrare le persone che mi hanno salvato, che mi hanno dato la vita per la seconda volta”.