Giornata mondiale dell'obesità, tanti strumenti a disposizione. L'esperto: “Si cura”
Nuove terapie farmacologiche, chirurgia mini-invasiva e presa in carico della persona. Ce ne parla il chirurgo bariatrico Alessandro Giovanelli, responsabile INCO (Istituto Nazionale per la Cura dell’Obesità) di Milano

Il chirurgo bariatrico Alessandro Giovanelli
In occasione della Giornata Mondiale dell'Obesità - problematica sempre più diffusa a livello mondiale, con conseguenze spesso importanti sulla salute e sulla qualità della vita di chi ne è afflitto - ci siamo rivolti al professor Alessandro Giovanelli, chirurgo bariatrico responsabile dell’Istituto Nazionale per la Cura dell’Obesità (INCO) dell’IRCCS Ospedale Galeazzi-Sant’Ambrogio di Milano del Gruppo San Donato, per ottenere una fotografia quanto più esaustiva sul fenomeno. Al bando risposte facili, soluzioni miracolose e atteggiamenti prevenuti. Cosa dice la scienza e cosa ci raccontano i professionisti che, ogni giorno, lavorano con pazienti che soffrono di questa patologia?
La problematica è urgente, considerando che, in Italia - secondo il Bollettino epidemiologico nazionale curato dall’Istituto superiore di sanità (ISS) - nel biennio 2020-2021 si rileva il 33% degli adulti in sovrappeso e il 10% in condizione di obesità
Professore, quali sono le principali cause che portano all'obesità?
"Desidero rimarcare il concetto che l'obesità è una malattia, riconosciuta a tutti gli effetti: non è una situazione di cui un paziente è completamente responsabile, per cui vanno eliminati determinati stereotipi, quali concetti di colpa e stigma sulla persona. Malattia che ha moltissime cause. O meglio, moltissime concause che possono essere sostanzialmente identificate in un qualcosa di fisico, di biologico (seppure le percentuali, in questi casi, sono minime), ma anche di comportamentale acquisito. Vi sono anche alcune rare malattie genetiche, sia omogenetiche, che complesse (ciò significa che alcuni geni sono esplicitamente alterati). Oppure ci sono degli organi endocrini, che possono ammalarsi e determinare, in seconda battuta, una situazione di obesità. Parliamo delle ghiandole Ipofisarie, Gonadiche, tiroidee, Surrenaliche, ma anche in questo caso la percentuale è irrisoria.
Grande parte la fa, inoltre, quello che è il mondo intorno a noi, quindi lo stile di vita legato all'alimentazione, al movimento, alle condizioni ambientali: siamo immersi in un ambiente obesogeno. Non trascuriamo neppure l'influenza di comportamenti appresi. In alcune zone, ci sono atteggiamenti familiari di un certo tipo, rituali diversi.
Importante, in questa patologia, anche il legame con il mondo della psiche. Stabilire se si è obesi perché via sia fragilità psicologica o viceversa diventa un rompicapo di non facile risoluzione, le situazioni sono - nella maggior parte dei casi - molto sfaccettate. Non esistono risposte facile ed immediate, vanno piuttosto valutate tante questioni. Superiamo, però, il concetto che chi è obeso è destinato a rimanerci. La maggior parte dei nostri pazienti, che va incontro a trattamento, ottiene un risultato e lo riesce a mantenere. Anche se c'è una piccola parte che, sul lungo periodo, incontra delle difficoltà. Ma se ci impegniamo e ci facciamo curare da chi ci sa curare, possiamo controllare la malattia”.
Considerando le molteplici implicazioni da lei descritte, che possono favorire l'insorgenza di problematiche legate al peso, ci sono strategie da mettere in campo nei primissimi anni di vita dei bambini, per tracciare un percorso il più possibile virtuoso? Il nodo dell'obesità infantile è molto sentito, anche nel nostro Paese? “Effettivamente nel primo periodo della vita le cellule si moltiplicano. Quindi che si debba incominciare fin da piccoli a creare un corretto sviluppo, secondo quelli che sono i percentili e le regole della pediatria, è assolutamente fondamentale. Come possiamo agire nel pratico? L'alimentazione, soprattutto all'inizio, è abbastanza standard. È importante, però, continuare a lavorare anche nel periodo successivo, ovvero quando il bambino comincia ad interagire con gli alimenti, ad esprimere i propri gusti e i propri stili di vita. Lì la famiglia e le buone abitudini saranno la base. Anche la società deve agire in modo tale da favorire il migliore sviluppo. Non sempre il bambino più robusto sarà un obeso del domani. Importante è veicolare messaggi corretti fra i bambini, aiutando e informando al meglio anche i genitori. Un dato interessante è che, nonostante l'obesità di adolescenti e bambini nel mondo sia quadruplicata, la nota positiva è che, in Italia, questa tendenza pare essere rallentata negli ultimi anni. Complice anche una corretta e continuativa sensibilizzazione sul tema. I livelli, ad ogni modo, rimangono preoccupanti ma si evidenzia una maggiore attenzione delle nuove di generazioni di genitori sul tema dell'alimentazione sana e della sostenibilità. Deve essere un lavoro di squadra: più attenzione nei menu delle mense scolastiche, ma anche corretti comportamenti una volta a casa: dal nutrimento al moto”. Come funziona la presa in carico di un paziente nel vostro Istituto Nazionale per la Cura dell’Obesità?
"Iniziamo da un chiarimento: si prende in carico la persona, con tutto il suo bagaglio, non soltanto la malattia. Perché l'obesità di Giovanni non è obesità di Maria, non è obesità di Carolina, ognuno di loro ha un vissuto diverso ed un diverso funzionamento biologico. Si tratta di una presa in carico multidisciplinare, in cui diversi professionisti si confrontano per lavorare sulla migliore strategia di intervento. Si indagano gli aspetti biologici ma anche eventuali cause psicologiche, che possono incidere nella patologia. A quel punto accompagniamo la persona motivandola, coinvolgendola e proponendo i migliori criteri terapeutici, su misura”.
Facciamo un quadro sulle terapie farmacologiche disponibili in Italia?
"Per ciò che riguarda le terapie farmacologiche, in Italia, abbiamo tre categorie di farmaci disponibile; essendo stati messi al bando in maniera definitiva, per fortuna, sia quei complessi galenici prodotti nelle farmacie del tutto fuorilegge; ma anche tutti i farmaci estratti tiroidei, anfetamine e simili. Nonostante la regolamentazione sia attenta, molte persone collegano ancora eventuali prescrizioni farmacologiche a quel tipo di rimedi. E' importante, quindi, rassicurare i pazienti anche in tal senso, facendo passare un messaggio chiaro.
Abbiamo farmaci che riducono l'assorbimento dei grassi alimentari: questo significa che una quota dei grassi ingeriti durante i pasti passa attraverso l'intestino senza essere digerita e viene così eliminata. Hanno un'azione piuttosto contenuta. Gli effetti collaterali principali sono la presenza di grassi nelle feci - perché non vengono assimilati - diarrea (steatorrea).
Poi c'è la seconda categoria di farmaci, un derivato da terapie psicotrope, dati dall'associazione di due molecole. Queste compresse hanno la capacità di controllare meglio la fame a livello emozionale, se vogliamo, quindi agiscono più su questa componente dell'appetito. Si focalizzano sui sistemi del cervello che mettono in rapporto il cibo e l’emotività - responsabili spesso della fame nervosa - cercando di inibire la ‘dipendenza da cibo’ e in generale i centri deputati al controllo delle sensazioni di piacere correlate all’assunzione del cibo”. Cosa sono gli agonisti recettoriali?
“I nuovi agonisti recettoriali sono un gruppo di farmaci che mimano ormoni che il nostro corpo produce naturalmente, in particolar modo il nostro tratto intestinale. La chimica ne ha sintetizzati alcuni. La liraglutide e la semaglutide, per esempio, agiscono su un solo recettore. La Tirzepatide, invece, agisce su due ricettori. Allo studio vi sono, inoltre, farmaci che andranno ad agire su più recettori. Il loro funzionamento è quello di mimare l'azione di ormoni del nostro corpo che - a livelli diversi - agiscono modulando fame e sazietà, ma anche impattando sull'insulino resistenza. Si tratta di sostanze che normalmente produciamo ma, in questo caso, vengono somministrate a livelli maggiori. Con questi strumenti si possono raggiungere risultati ottimali”.
L’altro grande capitolo riguarda la chirurgia bariatrica, ci sono novità importanti anche in questo ambito?
"Le tecniche chirurgiche che utilizziamo presso l’INCO, riconosciuto Centro d'eccellenza SICOB (Società Italiana di Chirurgia dell'Obesità e delle Malattie metaboliche), rispecchiano i più elevati standard qualitativi e di mini-invasività. Viene adottato il protocollo ERABS “Enhanced Recovery After Bariatric Surgery”, che prevede un recupero più rapido dopo gli interventi chirurgici, sia dal punto di vista della mobilità che alimentare, ed evita l’impiego del sondino naso-gastrico e del catetere vescicale. Tutti gli interventi che realizziamo hanno l’obiettivo di ridurre l’appetito, favorendo un senso di sazietà precoce e di ottimizzare i processi metabolici. In generale, tutte le procedure chirurgiche portano a una modifica del volume dello stomaco, anche se mediante tecniche e procedure differenti, reversibili e non. Inoltre, negli ultimi anni la chirurgia bariatrica ha visto l’introduzione in sala operatoria della robotica che presenta molteplici vantaggi per il paziente nella gestione post-operatoria.
Un dettaglio non irrilevante, riguarda sicuramente l'appropriatezza dei trattamenti.
Sicuramente. Non esiste nessuno di questi strumenti che debba essere considerato una bacchetta magica, non esiste niente che fuori da noi risolva al 100% il problema. Dico sempre al paziente "ti daremo una macchina nuove, bella, con un motore fresco, ma poi sarai tu a metterti alla guida". Per cui se lo strumento - sia il farmaco che l'intervento in casi più seri - non lo contestualizzi, non cambi il tuo stile di vita, allora rischi di avere un effetto magari molto temporaneo. Questi percorsi terapeutici devono essere uno start per cambiare radicalmente”.
Qual è l'approccio che funziona meglio, secondo la sua esperienza?
"Contestualizzare la scelta terapeutica nell'ambito di un progetto: perché se nella malattia acuta risolvi il problema, punto e basta, in caso di una malattia cronica - qual è l'obesità - se non c'è la strategia, i risultati rischiano di essere modesti. Inoltre, l'esperienza di un fallimento, porta il paziente a demotivarsi ed autostigmatizzarsi, identificandosi in quello che percepisce come l'ennesimo obiettivo mancato. Rischia anche di sentirsi condannato. Invece no, non c'è nessuna condanna irreversibile: unendo strumenti adeguati (e tarati sulla persona) e un atteggiamento consapevole, è davvero possibile invertire la rotta. Se, da una parte, è corretto responsabilizzare il paziente, dall'altra invito anche tutti noi, come società, come individui, come persone, a ricordare, che chi è diverso da noi in virtù di queste problematiche, non deve essere giudicato, ma aiutato. Mai colpevolizzato per il suo problema che, ricordiamo, è una malattia. Che si può curare”.