Fibromialgia, ecco le strategie che aiutano a ridurre il dolore

Colpisce circa due milioni di italiani, ma spesso non è diagnosticata. Carlo Salvarani: «Attività fisica constante, terapie di rilassamento epidurale e pochi farmaci»

di OLGA MUGNAINI
18 marzo 2024

Non solo è una patologia che colpisce circa due milioni di italiani, ma in molti, troppi casi non è diagnosticata. La conseguenza è una vita di “dolore“ di cui non si ignorano le cause. Si tratta della fibromialgia, i cui casi sono in continua crescita, specie dopo la pandemia. Ma qualcosa per ridurre la sofferenza si può fare. Lo spiega il professor Carlo Salvarani, direttore della Struttura Complessa di Reumatologia dell’Azienda Usl Irccs di Reggio Emilia e ordinario di reumatologia all’Università di Modena e Reggio Emilia Ospedale Irccs S.Maria Nuova di Reggio Emilia, specialista e punto di riferimento a livello internazionale sulle nuove frontiere delle malattie reumatologiche.

 

Professor Salvarani, partiamo col dire cos’è la fibromialgia.

«Essenzialmente è una condizione non infiammatoria caratterizzata da dolore muscolo-scheletrico diffuso e cronico, che vuol dire per almeno tre mesi. Si associa poi ad altre manifestazioni che vanno dalla stanchezza, disturbo del sonno, problemi cognitivi, depressione, ansia, sindrome del colon irritabile, e altre manifestazioni cliniche, tant’è che che adesso parliamo di sindrome fibromialgica».

 

Da cosa ha origine?

«E’ dovuto a quello che si chiama sensibilizzazione centrale del dolore. Che ignifica disregolazione dei meccanismi del controllo del dolore da parte del cervello e da qui l’amplificazione del dolore stesso. In pratica il paziente fibromialgico ha due manifestazioni principali. La prima è chiamata allodinia, ossia un dolore suscitato da uno stimolo che normalmente non è in grado di provocare una sensazione dolorosa. Si potrebbe anche dire una riduzione della soglia del dolore. L’altro fenomeno è l’iperalgesia, ossia una risposta dolorosa esagerata ad uno stimolo in grado di provocare dolore».

 

Come si cura?

«Le terapie farmacologiche funzionano poco. La risposta più efficace è l’educazione del paziente. Ci sono vari studi randomi zzati e controllati, che hanno dimostrato che “educando“ si può ridurre il dolore, la stanchezza e il disturbo del sonno, e migliorare la qualità della vita del paziente».

 

Che cosa vuol dire “educare il paziente“?

«Intanto diciamo che è una malattia reale, nonostante spesso non sia conosciuta da molti medici, anche se adesso esistono criteri precisi per la diagnosi, definiti dall’Associazione Americana di Reumatologia. Quindi va detto al paziente che è una malattia vera e propria, non una finzione. Spieghiamo poi che non è un reumatismo infiammatorio, e che quindi la fibromialgia nel lungo termine non dà distruzione e deformità delle articolazioni. Ciò vuol dire che non avrà esisti invalidanti, anche se resterà cronicamente una qualità delle vita poco buona».

 

E quindi a livello terapeutico cosa si può fare?

«La principale terapia è un’attività aerobica regolare di 30-40 minuti al giorno, tre-quattro volte alla settimana: camminata a passo veloce, bicicletta, ballo, pilates, o anche attività aerobica in acqua, meglio calda che fredda, perché ha un effetto di rilassamento muscolare. Va anche detto al paziente che gli effetti benefici possono arrivare dopo qualche mese e che quindi non ci si deve scoraggiare. Ci sono poi terapie cognitivo-comportamentali di rilassamento epidurale».

 

Ma niente farmaci?

«Ci sono pochissime evidenze scientifiche nella riduzione del dolore e nel miglioramento della qualità della vita. Gli unici sono alcuni antidepressivi soprattutto quelli con un effetto miorilassante e migliorativo sul disturbo del sonno. Non hanno effetto invece gli antinfiammatori, gli oppiacei e i cortisonici. Mentre utilizziamo con qualche risultato gli antiepilettici. I derivati dalla cannabis non hanno prove di efficacia».

 

Quanti sono i pazienti di fibromialgia?

«E’ molto frequente e secondo due studi italiani, interessa circa due milioni di persone, le donne più degli uomini. Molti non lo sanno perché i medici di base non la diagnosticano. C’è poi una fibromialgia secondaria, che è associata alle malattie reumatiche infiammatorie, come l’artrite psoriasica, le spondiloartriti assiali, l’artrite reumatoide, la sindrome di Sjogren, il lupus sistemico eritematoso».

 

Professore, ci parla anche delle vasculiti?

«Queste sono malattie infiammatorie delle pareti dei vasi sanguigni e si distinguono proprio dalla dimensione dei vasi infiammati, di piccole, medie o grandi dimensioni. L’ infiammazione vascolare determina, se non trattata, stenosi e ostruzioni, con ridotto apporto di sangue e conseguente lesione degli organi interessati o aneurismi infiammatori particolarmente a carico dell’aorta a rischio di rottura con elevata mortalità. E’ quindi fondamentale una diagnosi precoce per evitare conseguenze pesanti agli organi interessati».

 

Cosa provoca le vasculiti? Sono congenite?

«Non sono malattie ereditarie, e non si sa bene quali sia il fattore scatenante, probabilmente c’è una predisposizione».

 

Quali sono i campanelli d’allarme per il paziente?

«Per l’arterite a cellule giganti, che è una vasculite dell’anziano, sono cefalea a nuova insorgenza, claudicatio della mandibola, perdita della vista o anche manifestazioni sistemiche come febbre, dimagrimento, diminuzione dell’appetito».

 

IL PROFILO

Il professor Carlo Salvarani ha ricevuto il prestigioso ‘Charles Slocumb Award’ per il 2023, riconoscimento internazionale conferito dalla Mayo Clinic Philip Hench Society. Salvarani è il primo italiano a ricevere questo riconoscimento dedicato ai medici che hanno dimostrato straordinari contributi nel campo della Reumatologia in termini di Ricerca, educazione, amministrazione e iniziative umanitarie.

 

Tecnologia al servizio dei pazienti

L’intelligenza artificiale, ormai sempre più presente in ambito medico, è già una preziosa alleata anche della reumatologia. «Potendo valutare grandi dati in poco tempo, l’intelligenza artificiale permette e permetterà di meglio diagnosticare i pazienti – spiega il professor Salvarani –. Può essere utile cioè per indivuare gruppi omogenei di persone con una determinata malattia, per individuare un elemento patofisiologico comune, in maniera da permettere una medicina personalizzata con terapie più precise e specifiche per i vari sottogruppi ». E poi ci sono le molte le applicazioni in campo radiologico: «Prendiamo ad esempio i pazienti che hanno interessamento polmonare di tipo interstiziale – prosegue Salvarani –. In questo caso l’intelligenza artificiale può servire per meglio quantificare il danno e la sua evoluzione, soprattutto in lastre di follow up quando un paziente viene seguito nel tempo. Un’altra area sulla quale si sta lavorando molto è quella legata ai sistemi di predizione, in grado di identificare possibili patologie ancora prima che queste si manifestino».