Cristina Mussini: "Contro l’HIV mai abbassare la guardia"
Resta alto il numero delle diagnosi tardive: "Fare prevenzione, diffondere i test in maniera capillare fuori dai percorsi tradizionali"
«La pandemia ha impattato pesantemente su tutte le patologie croniche compreso l’HIV, ha avuto ripercussioni sulla prevenzione, l’aderenza terapeutica, la qualità della vita, tanti hanno paura di essere contagiati dal virus Sars-Cov2». Così la professoressa Cristina Mussini, da sempre in prima linea nella lotta all’Aids, che ha presieduto (con Annamaria Cattelan, Valeria Calvino e Maria Capobianchi) la tredicesima edizione del Congresso ICAR – Italian Conference on AIDS and Antiviral Research. Professoressa Mussini, l’attenzione è tutta concentrata sul Covid, l’Aids pare un lontano ricordo. Quali i trend che preoccupano maggiormente? «L’emergenza a livello globale c’è tuttora: parliamo di 37 milioni di soggetti colpiti da HIV, 5.500 donne infettate ogni giorno. Da noi, nonostante gli sforzi profusi, resta alto il numero delle diagnosi tardive: più della metà delle persone che arrivano alla nostra osservazione scopre di aver contratto il virus quando la malattia è ormai sintomatica». Quali i progressi nelle cure? «In trent’anni, grazie alla terapia antiretrovirale, possiamo dire che l’aspettativa di vita è paragonabile a quella delle persone HIV negative. Prima si dovevano prescrivere anche 13 compresse al giorno a orari diversi, oggi basta una unica compressa giornaliera. Con l’anno nuovo potremo disporre di farmaci long-acting, che semplificheranno ulteriormente le cose potendo essere somministrati ogni 2 mesi. Saranno prodotte anche pastiglie da prendere una volta la settimana, si parla addirittura di impianti sottocutanei che possano durare mesi». Avete pazienti che rispondono meno bene alle terapie? «Esiste uno zoccolo duro di pazienti difficili da trattare, resistenti a più farmaci, ma per fortuna sono pochissimi. Con loro potremo impiegare i nuovi anticorpi monoclonali registrati da Aifa. Parliamo di prodotti costosi, impegnativi, che si somministrano endovena ogni due settimane. Li possiamo utilizzare nelle persone con alle spalle tanti anni di terapia antiretrovirale, per esempio nei sieropositivi dal 1985, che hanno fatto tante terapie fino a diventare resistenti, o nei giovani che hanno contratto il virus per via materna, in terapia dalla nascita». Niente vaccino anti-Aids o antivirali? «Un vaccino terapeutico per l’HIV è difficile da realizzare perché il virus, una volta entrato nella cellula, si nasconde, sottraendosi all’azione degli anticorpi neutralizzanti. Ma siamo all’inizio di una nuova era, visto che gli anticorpi monoclonali potrebbero essere usati anche in altri contesti, come nella terapia iniziale o nella prevenzione. Speriamo che nei prossimi anni lo sviluppo di soluzioni avanzate, tra cui certamente la terapia genica, ci renderanno in grado di aggredire il virus in modo definitivo. Per quanto riguarda un vaccino preventivo, speriamo che i progressi fatti con le piattaforme vaccinali per il COVID-19 possano portare risultati anche nell’infezione da HIV». Esiste una profilassi (tecnicamente PrEP) ma è poco praticata, perché? «Le agenzie regolatorie non hanno percepito quanto la profilassi sia importante. La protezione arriva praticamente al 100 per cento andrebbe fornita gratuitamente. Una vera rivoluzione è stata il concetto U=U cioè le persone con carica virale negativa nel sangue a seguito della terapia non trasmettono l’infezione ai partner sessuali e ai propri figli durante la gestazione. Questo spero contribuisca a diminuire i pregiudizi verso le persone sieropositive.». Una donna può avere figli senza correre il rischio di trasmettere il virus? «Una donna HIV positiva, purché assuma correttamente la terapia antiretrovirale, con carica virale negativa nel sangue, può fare figli per via naturale. Un caso particolare può essere quello in cui la donna scopra la sieropositività durante la gravidanza. In questi casi bisogna impostare subito una terapia efficace e molto potente, per nulla lesiva nei riguardi del feto». Questo vale anche per l’allattamento al seno? «Uno studio condotto a Palermo su donne immigrate dall’Africa ha escluso il rischio di trasmissione del virus attraverso il latte materno. Esistono aspetti psicologici nella richiesta della madre di allattare il bambino (lo rileva pure una ricerca realizzata da LILA con Nadir un gruppo di studio SIGO, Società italiana ostetricia e ginecologia, ndr)». Infezioni sessualmente trasmesse, HIV, epatiti: quali le prossime scommesse? «Dobbiamo diffondere i test in maniera capillare anche indipendentemente dai percorsi sanitari tradizionali. I test dovrebbero includere tutte le infezioni sessualmente trasmesse anche perché sifilide e gonorrea sono in crescita. Anche quest’anno ai primi di dicembre saremo nelle piazze per fare informazione, sostenere gli screening. Un ruolo molto importante lo stanno svolgendo le associazioni di persone che vivono con HIV attraverso i check-point». Quali altre malattie infettive, oltre a quelle citate, impegnano il sistema sanitario? «Tubercolosi, endocarditi e sepsi. La malaria al rientro da paesi endemici. Ho avuto di recente una ragazza di 22 anni con meningite batterica. I letti ospedalieri sono sempre stati occupati, anche prima del COVID-19. Poi ci sono casi che possono essere trattati sul territorio, infezioni delle vie urinarie, otite, polmonite, infezioni dei tessuti molli, e anche queste possono dare quadri preoccupanti che arrivano alla nostra osservazione».