Cellule natural killer, arma contro il tumore al seno
Francesca Reggiani, sviluppi incoraggianti dall’immunoterapia associata alla chemio per le forme triplo negativo
Il nome ‘Natural Killer’ forse non è molto rassicurante, ma queste cellule immunitarie potrebbero salvare le vite di tante donne affette da tumore al seno. Questo è il focus del grande lavoro che la ricercatrice Francesca Reggiani, 36 anni, porta avanti con determinazione. Un impegno riconosciuto dalla Fondazione Umberto Veronesi prima con due borse di studio, assegnatele nel 2020 e nel 2021, poi quest’anno con il premio ‘Fondazione Umberto Veronesi Award’. Nata a Montecchio (Reggio Emilia), la dottoressa Reggiani ha fatto ritorno nella sua provincia d’origine ormai quattro anni fa e a giugno scorso è stata assunta al laboratorio di ricerca traslazionale dell’azienda Usl-Irccs di Reggio, diretto dalla dottoressa Alessia Ciarrocchi.
Dottoressa Reggiani, su cosa si concentra il suo progetto?
«Il mio lavoro si specializza sul ruolo del sistema immunitario per curare il tumore al seno, in particolare il triplo negativo, che può colpire anche donne giovani e per il quale non si hanno ancora terapie molecolari efficaci; inoltre risponde poco alla chemioterapia, per cui le aspettative di guarigione sono molto basse. Oggi però l’immunoterapia sta esplorando nuove strade che sono molto promettenti».
Ci può dare un dato?
«Stando ai risultati dello studio Keynote-522, la risposta completa delle pazienti trattate sia con chemioterapia che con immunoterapia va dal 65 all’80%, il dato può variare in base alla casistica. Quelle invece trattate solo con chemioterapia hanno una risposta che va dal 40 al 65%; a oggi quando una paziente non risponde alla chemio, restano solo le cure palliative».
Quante donne in Italia sono affette da tumore triplo negativo?
«Il triplo negativo rappresenta circa il 15-20% delle diagnosi di tumore al seno. L’Oncologia di Reggio Emilia ha iniziato in primavera a trattare le prime pazienti sia con chemioterapia che con immunoterapia, tra un anno potremo avere un numero di pazienti e di risultati adeguato per poter stimare l’efficacia della terapia».
Con quali altre realtà italiane vi confrontate?
«Il nostro lavoro è allineato a quello che stanno svolgendo a livello nazionale e internazionale per esempio l’Istituto Europeo di Oncologia (IEO) e l’Humanitas Research Hospital di Milano, ma anche lo stesso Irst di Meldola (Forlì-Cesena) che si muove su altre forme tumorali. Ci stiamo di fatto inserendo in un contesto, quello dell’immunoterapia, che sta già andando avanti da diversi anni».
Che evoluzione porta l’immunoterapia nella cura del cancro?
«Grazie ad alcune terapie sperimentate e approvate, rende il tumore più visibile al sistema immunitario. Un grande vantaggio che tra l’altro, a differenza della chemioterapia, ha minori effetti collaterali».
Come si muove la sua ricerca?
«Il progetto caratterizza le cellule immunitarie più coinvolte, che sono composte solo in parte dai linfociti. La mia attenzione infatti si sofferma un tipo di cellule denominate ‘Natural Killer’, che hanno delle potenzialità immunitarie altissime ma sono numericamente poche, per cui il tumore riesce ad evadere con grande facilità. L’obiettivo è potenziarle, sia nel numero che nell’efficacia, usando una tecnica simile ai CAR-T».
Ossia?
«Fondamentalmente si prelevano dei linfociti dal paziente che vengono ingegnerizzati, per renderli più forti, e poi reintrodotti nel paziente. Qui ho la possibilità di fare una serie di esperimenti in laboratorio, isolando le ‘Natural Killer’ dal sangue delle pazienti, e studiare come implementare la loro efficacia».
Posso chiederle qual è la sua situazione contrattuale?
«Sono assunta a tempo determinato, con un contratto da ricercatore sanitario della durata di dieci anni, cinque più cinque. È un nuovo inquadramento negli Irccs pubblici che ha permesso di stabilizzare la nostra figura professionale il più possibile rispetto al passato, quando l’unica possibilità era data da bandi e borse di studio. Ho tanti colleghi che hanno scelto di andare all’estero e non hanno nessuna intenzione di rientrare in Italia».
Lei invece è tornata. Perché?
«Quella all’estero è stata un’esperienza bellissima che mi ha permesso di crescere molto, come professionista e non solo, ma la mia vita la vedevo qui in Italia. Ciò non toglie che nel nostro Paese manchi un’attenzione fondamentale a due elementi: rendere più dignità al lavoro dei ricercatori e diventare più attrattivi nei confronti dell’estero. È essenziale ricreare la figura del ricercatore, per permettere a chi ha alle spalle un’esperienza anche decennale di poter avere più sicurezza lavorativa, e questo aiuterebbe anche a essere più competitivi a livello internazionale. Nel panorama italiano mi sento una privilegiata in quanto professionista che è riuscita, per merito e senza raccomandazioni, a trovare una stabilità facendo il lavoro che amo e potendomi riavvicinare alla mia terra e ai miei affetti».
Profilo biografico
Dopo la laurea nel 2011 in biotecnologie all’università di Bologna, il percorso professionale della dottoressa Francesca Reggiani si è spostato all’estero (prima a Vienna e poi a Londra). Nel 2012 vince una borsa di studio per un dottorato di ricerca della durata di quattro anni all’Istituto Europeo di Oncologia di Milano; in quello stesso anno nasce l’Irccs di Reggio Emilia, dove la dottoressa manda avanti il suo progetto di ricerca dal 2018.