"Barca a vela, una medicina contro lo stress"

Michele Zambelli, skipper e navigatore solitario, racconta i benefici di solcare il mare lasciando a terra le preoccupazioni della vita

di MADDALENA DE FRANCHIS -
19 agosto 2024
zamb

«Nel viaggio notturno, di rientro a casa, guardavo le stelle. Sorridevo, ripensando a quella gente, e provavo quasi tenerezza: non so se lo hanno capito, ma le cose più belle del mondo sono gratis». La citazione, tratta dal suo libro “Naufrago… per caso“, spiega bene quale sia, secondo lo skipper e navigatore solitario Michele Zambelli, classe 1990, una delle principali lezioni della vela: apprezzare la bellezza delle cose semplici, ancor più in un mondo che ci trascina verso desideri sempre nuovi, lasciandoci perennemente insoddisfatti.

 

Lei ha definito la vela come una medicina. A cosa si riferisce?

 

Alla sua capacità di ‘ripulire’ il corpo e l’anima da tutte le tossine accumulate sulla terraferma, nella quotidianità. Dopo essere stati in mare aperto e aver sperimentato, per un periodo più o meno lungo, la mancanza totale di comfort, di tutte quelle ‘piccole cose’ che si danno ormai per scontate, si ritorna a terra avendo imparato a scegliere con cura ciò di cui si ha davvero bisogno.

 

È il motivo per cui consiglia ai giovani di avvicinarsi alla vela?

 

Siamo abituati ad avere tutto e subito: cosa che, viaggiando su una barca a vela, è impensabile. È l’occasione per imparare a centellinare i beni che abbiamo a bordo, a condividerli, ma soprattutto ad aspettare i tempi della barca e i ritmi della natura.

 

Il tempo di bonaccia e quello della tempesta: è così?

 

La vela insegna che ‘tutto scorre’: la bonaccia che tiene ferma la barca anche per una notte intera, così come la tempesta più violenta, fino ai cieli limpidi e ai momenti gloriosi delle vittorie sportive. Ci vedo una lezione di positività, o di resilienza, per usare un termine ‘di moda’. Resisti perché sei consapevole che tutto, prima o poi, finirà.

 

Ha iniziato a sognare l’oceano a 15 anni: cosa vuole dire ai ragazzi di oggi?

 

Il mio augurio per i ragazzi e le ragazze che incontro nelle scuole di vela è avere la mia stessa fortuna: incrociare un maestro (ormai ce ne sono sempre meno, purtroppo) e lasciarsi guidare verso l’orizzonte. Così si apprende la cultura del mare, così ci si innamora della vela: che, non dimentichiamolo, è una parte rilevante e affascinante della storia del nostro Paese.

 

Di cosa si occupa oggi?

 

Gestisco una piccola azienda edile, ma non ho abbandonato il mondo della vela. Anzi, me lo godo di più ora: non dover pensare ai soldi e alla ricerca affannosa di sponsor mi ha permesso di riconnettermi col mare. E la mia squadra di collaboratori in cantiere è diventata il mio equipaggio.

 

Che intende dire?

 

Nel settore dell’edilizia, gran parte dei lavoratori è di provenienza straniera. Molti di loro sono arrivati via mare, affrontando mille peripezie e rischiando la vita per inseguire il sogno di una vita migliore. Ne parlo spesso con loro, provano la stessa gratitudine che nutro io nei confronti di chi mi ha salvato quando ero in difficoltà. Mi piace paragonare il gruppo a un equipaggio, fatto di persone diverse, con storie diverse, ma pronto ad affrontare, ogni giorno, una nuova avventura.

 

Un navigatore solitario sa ascoltare?

 

La prima cosa da imparare, in barca, è saper ascoltare. La vela non ti permette di ripiegarti su te stesso, poiché devi continuamente affidarti ad altre persone: maestri d’ascia, tecnici di cantiere, progettisti, esperti meteo.

 

Dopo tutte le miglia che ha percorso, come si sente?

 

È una fiamma che non si spegne mai. Basta una scintilla per farla divampare ancora.

 

Rialzarsi dopo il fallimento: lo insegna il mare

 

Naufragare? Una lezione di vita per rialzarsi dopo un fallimento. Ne è convinto lo skipper forlivese Michele Zambelli, che nella sua carriera ha sperimentato sia la gloria della vittoria, sia il boccone amaro del fallimento – culminato in un naufragio al largo dell’oceano Atlantico, a 400 miglia dalle coste canadesi – si dichiara follemente innamorato dei naufraghi e del naufragio. «Il naufragio è un rischio che devi correre, se intendi superare il tuo limite – spiega – il naufragio è l’ostacolo in cui inciampiamo ogniqualvolta ci mettiamo alla prova in qualcosa di sconosciuto, l’errore di cui dobbiamo fare tesoro per migliorarci e crescere».

 

In una società che ripudia il fallimento e ci costringe a mostrarci sempre vincenti, «sembra quasi che la sconfitta sia inammissibile, un tabù da non pronunciare: complici i social network, siamo chiamati a essere tutti supereroi», prosegue Zambelli. «Io sto dalla parte degli sconfitti: il mio naufragio alla Ostar del 2017, che resta la mia ultima regata transoceanica, è stato causato da una serie di errori tecnici e di impreparazione. Errori dai quali ho imparato molto di più rispetto a tante altre esperienze in cui è filato tutto liscio». Sono le stesse parole che oggi Zambelli ripete a sua figlia, che sta muovendo i primi passi e, ogni tanto, fa un capitombolo: «Se segui il tuo istinto – dice -, prima o poi capiterà di cadere. Ti farai male? Certo, ma la prossima volta te ne ricorderai e, caduta dopo caduta, imparerai ad andare avanti».