Francesco Ghidetti
ROMA
FORSE la frase che spiega tutto è quella scolpita sulla tomba: «La mia libertà equivale alla mia vita». Perché nel dibattito sulla figura di Bettino Craxi cè una domanda: la sua fuga fu un esilio o una latitanza? Non sta al cronista giudicare. Ma forse nemmeno ai politici: pensate un po che, in quella famosa piazza romana davanti al Raphael quando tirarono le monetine a Bettino, cera anche Er Batman, allora militante del Msi, alias Franco Fiorito. E forse proprio al Raphael, in quel pomeriggio del 30 aprile di ventanni fa, Bettino maturò la scelta di andarsene. Gli ritirarono il passaporto nel maggio del 1994, ma lui era già in Tunisia dopo una breve sosta in Francia dal compagno Mitterrand. Il 21 luglio 1995 fu dichiarato ufficialmente latitante. Ecco, quella definizione era ciò che più lo feriva. Tanto da equiparare arditamente la sua vita a quella di Garibaldi che, effettivamente, aveva passato un periodo di esilio in quel di Tunisi dopo il dramma del 1849 (fine della Repubblica romana e morte di Anita).
SI STABILÌ nella sua residenza ad Hammamet. Ma in quella villa, come ricordano tutti coloro che ci sono stati, non cerano rubinetti doro, i muri erano scrostati, lo studio era un ammasso di carte e ritagli di giornali. Attaccava duro dallesilio/latitanza: gli eredi del Pci (anche se poi a proporre esequie di Stato, rifiutate, fu Massimo DAlema...); la magistratura; faceva capire che gli Stati Uniti non avevano mandato giù la storia di Sigonella. Sia quel che sia, Craxi aveva capito che per lui era finita. Lo aveva capito quando, sotto il lancio delle monetine, sedette in macchina e scandì un malinconico «scusate». Lo aveva capito quando, narrano, negli ultimi tempi non riusciva a mangiare nemmeno i suoi piatti preferiti perché gli si chiudeva la bocca dello stomaco. E allora niente zuppa di cipolle, cous cous di pesce, e nemmeno i due bicchieri di vino bianco. Cè chi dice che anche sulle sigarette avesse messo uno stop, dettato più dalla debolezza che da divieti medici. Quando morì, il 19 gennaio del 2000, volle che la sua tomba fosse orientata verso lItalia. Poi, cominciò la caccia al tesoro di Bettino. Nulla sè trovato. E cominciò il tormentone: era scappato da una giustizia orientata solo da una parte? Era fuggito perché si sentiva colpevole in tutto e per tutto? Voleva difendersi? Chissà. Di sicuro, in una sera del 1993, ebbe a dire a un cronista a Roma: «Andiamo a mangiare in pizzeria, voglio stare in mezzo alla gente». La pizza costava poco. Ed era buona.
ROMA
FORSE la frase che spiega tutto è quella scolpita sulla tomba: «La mia libertà equivale alla mia vita». Perché nel dibattito sulla figura di Bettino Craxi cè una domanda: la sua fuga fu un esilio o una latitanza? Non sta al cronista giudicare. Ma forse nemmeno ai politici: pensate un po che, in quella famosa piazza romana davanti al Raphael quando tirarono le monetine a Bettino, cera anche Er Batman, allora militante del Msi, alias Franco Fiorito. E forse proprio al Raphael, in quel pomeriggio del 30 aprile di ventanni fa, Bettino maturò la scelta di andarsene. Gli ritirarono il passaporto nel maggio del 1994, ma lui era già in Tunisia dopo una breve sosta in Francia dal compagno Mitterrand. Il 21 luglio 1995 fu dichiarato ufficialmente latitante. Ecco, quella definizione era ciò che più lo feriva. Tanto da equiparare arditamente la sua vita a quella di Garibaldi che, effettivamente, aveva passato un periodo di esilio in quel di Tunisi dopo il dramma del 1849 (fine della Repubblica romana e morte di Anita).
SI STABILÌ nella sua residenza ad Hammamet. Ma in quella villa, come ricordano tutti coloro che ci sono stati, non cerano rubinetti doro, i muri erano scrostati, lo studio era un ammasso di carte e ritagli di giornali. Attaccava duro dallesilio/latitanza: gli eredi del Pci (anche se poi a proporre esequie di Stato, rifiutate, fu Massimo DAlema...); la magistratura; faceva capire che gli Stati Uniti non avevano mandato giù la storia di Sigonella. Sia quel che sia, Craxi aveva capito che per lui era finita. Lo aveva capito quando, sotto il lancio delle monetine, sedette in macchina e scandì un malinconico «scusate». Lo aveva capito quando, narrano, negli ultimi tempi non riusciva a mangiare nemmeno i suoi piatti preferiti perché gli si chiudeva la bocca dello stomaco. E allora niente zuppa di cipolle, cous cous di pesce, e nemmeno i due bicchieri di vino bianco. Cè chi dice che anche sulle sigarette avesse messo uno stop, dettato più dalla debolezza che da divieti medici. Quando morì, il 19 gennaio del 2000, volle che la sua tomba fosse orientata verso lItalia. Poi, cominciò la caccia al tesoro di Bettino. Nulla sè trovato. E cominciò il tormentone: era scappato da una giustizia orientata solo da una parte? Era fuggito perché si sentiva colpevole in tutto e per tutto? Voleva difendersi? Chissà. Di sicuro, in una sera del 1993, ebbe a dire a un cronista a Roma: «Andiamo a mangiare in pizzeria, voglio stare in mezzo alla gente». La pizza costava poco. Ed era buona.
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