di Cosimo Rossi
ROMA
Allarga a destra e a manca il pastore tedesco di consensi Manfred Weber. Alla vigilia del voto odierno alla Commissione bis guidata da Ursula von der Leyen il potente leader del Ppe rivendica la strategia dell’attenzione strabica che si è resa necessaria per sostenere un governo europeo che da un lato, dopo il fallimento anticipato del Greeen new deal, manca di indirizzi strategici netti e dell’altro continua a infrangersi sui nazionalismi. Oggi infatti la seconda Commissione a guida von der Leyen ha bisogno di tutti i voti possibili per superare lo scoglio del Parlamento con un consenso rassicurante, viste le numerose defezioni tra franchi tiratori e altri obiettori.
Riconoscendo il contributo essenziale dei conservatori italiani di Fratelli d’Italia per risolvere l’impasse sui vicepresidenti, dove si incrociavano i veti popolari alla socialista spagnola Teresa Ribera e quelli socialisti all’italiano Raffaele Fitto, Weber rivendica di aver lavorato "a un ampio centro nel Parlamento europeo, dai Verdi all’Ecr, verso una parte ragionevole delle forze conservatrici". Un piano che sta effettivamente "diventando realtà", come si compiace il leader popolare, che 5 anni fa rimase escluso per i veti interni dalla corsa alla guida alla Commissione, ma oggi svolge un ruolo sempre più di potere che va ben aldilà dell’eminenza grigia. Se da un lato von der Leyen ha acquisito il voto dei conservatori meloniani, ma non del Pis polacco all’opposizione del popolare Donald Tusk, dall’altro la nomina come consigliere per l’ambiente di Philippe Lamberts blandisce il voto della metà centro-europea dei Verdi. Restano contrari i socialisti francesi e una ventina di franchi tiratori popolari.
Weber e von der Leyen sono insieme concorrenti e alleati alla guida dell’Europa: l’uno più politico e anche risoluto, l’altra più volubile e indulgente. Due differenze che fanno la forza dell’egemonia del Ppe sulla politica continentale. Che in effetti ha messo tutti gli alleati in riga nel processo di formazione della Commissione. Salvo per quanto riguarda gli indirizzi politici, che rimangono piuttosto approssimativi nonostante i richiami specialmente di Mario Draghi alla necessità di 800 miliardi l’anno di debito comune per reggere la sfida della competitività con Usa e Cina, che rischia di schiacciare l’Europa a cominciare proprio dalla locomotiva Germania. Lo dimostra l’approvazione di 20 piani strutturali di bilancio su 21, compreso quello italiano. Le uniche riserve della Commissione riguardano proprio i rigoristi olandesi e la Germania. E non basta compiacersi del contrappasso, come si lascia scappare il commissario all’economia Paolo Gentiloni. Il fatto che i principali commissari non abbiano disegnato un progetto chiaro è quel che più allarma gli osservatori di Bruxelles. Basti pensare che, dall’alta rappresentate estone per la politica estera, Kaja Kallas, alla spagnola Ribera, incaricata della transizione ecologica, al danese Dan Jorgensen, che si occuperà di energia e casa, si erano tutti detti favorevoli al debito comune. Salvo omettere del tutto l’argomento nelle audizioni.
Le titubanze sul debito comune per la crescita e la difesa sono considerate indicative dell’insipienza della nuova Commissione a fronte delle sfide poste dalla vittoria di Donald Trump. Von der Leyen cerca di ottemperare allargando la base dei consensi in Parlamento, col Ppe che punta a prendere le redini di una politica che può poggiare sui conservatori per arginare le destre rispetto a migranti e green deal e sui socialisti per la lealtà al rigore istituzionale. Ma manca un disegno di sviluppo.