Era scontato ma adesso è ufficiale: l’Italia esce dalla Via della Seta (Belt and Road Initiative – in sigla BRI), il progetto di sviluppo infrastrutturale ed economico tra Oriente e Occidente promosso dalla Cina ma inviso agli Stati Uniti e ai vertici dell’Unione europea. Unico paese del G7 agganciato da Pechino, l’Italia esce dall’accordo sottoscritto dal governo Conte I e si riallinea alla propria collocazione geopolitica. Una retromarcia in piena regola appena sfumata dal tecnicismo del mancato rinnovo alla scadenza del prossimo 24 marzo. Il significato è chiaro: l’Italia sta dove gli Stati Uniti e i principali partner europei gradiscono che stia. E dove la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ritiene meglio garantito l’interesse nazionale, in linea con il pensiero del suo predecessore Mario Draghi.
Secondo il Libro Bianco del Congresso Nazionale del Popolo del marzo 2015 (il documento che delinea la visione e il piano d’azione del BRI), lo scopo ultimo del progetto – citato da un report dell’Ispi – è difatti l’istituzione di "uno spazio strategico stabile e favorevole allo sviluppo a lungo termine dell’economia cinese". Ipotesi sgradita a Washington e a Bruxelles. Proprio oggi a Pechino la commissaria Ue Ursula von der Leyen, il presidente del Consiglio europeo Charles Michel e l’alto rappresentante per la Politica estera Josep Borrell, incontreranno infatti il presidente Xi Jinping e il premier Li Qiang al 24° summit Cina-Ue. Molti i dossier aperti. Su tutti il deficit commerciale europeo con la Cina schizzato nel 2022 a 400 miliardi di euro dai meno di 200 pre-Covid.
Il ministro degli Esteri Antonio Tajani è caustico: "La Via della Seta non è la nostra priorità, non ha prodotto gli effetti sperati. Germania e Francia hanno avuto un fatturato superiore al nostro. Rafforzeremo il rapporto con Pechino". Impossibile, invece, il raffronto con gli altri paesi europei aderenti al BRI. L’asimmetria dei singoli accordi e il minor peso dei contraenti (Polonia, Bulgaria, Croazia, Grecia, Lettonia, Lituania, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Malta, Portogallo, Slovenia e Slovacchia) non consentono un valido paragone.
Giuseppe Conte, firmatario dello storico memorandum del 2019 a Villa Madama e oggi leader nazionale del Movimento 5 Stelle, non ci sta. Prima accusa Tajani: "Ma li ha visti i dati dei suoi uffici? L’Osservatorio economico della Farnesina parla chiaro: nei primi 9 mesi del 2023 l’export italiano in Cina ha registrato una crescita tendenziale del 25,1%, attestandosi quasi a 15 miliardi di euro". Poi attacca Giorgia Meloni: "Si è accorta che anche Biden ha ricevuto Xi Jinping negli Usa? Che Macron e Sanchez sono andati in Cina?".
Un dialogo tra sordi perché in questi casi la scelta è sempre e solo politica. Da Palazzo Chigi nessun commento e un ostentato basso profilo. La Farnesina smorza le polemiche rilanciando l’ormai ventennale ’partenariato’ Roma-Pechino. Con una lettera recapitata per tempo, il governo rinnova l’impegno a "rafforzare e sviluppare la collaborazione bilaterale". Ma il ritorno al ’partenariato’ semplice non può certo eccitare Pechino (dove nel 2024 dovrebbe recarsi in visita ufficiale il presidente della Repubblica Sergio Mattarella).
Complicato stimare gli effetti della disdetta sulle aziende italiane, dai trasporti all’energia, dagli impianti siderurgici ai cantieri navali – solo per citare i settori più esposti. Le società più strutturate non sono state certamente colte di sorpresa. Cifre ufficiali però non ce ne sono. E neppure report a tema. "Francia e Germania, i colossi europei, hanno aziende che andranno avanti lo stesso con i loro business, perché sono giganti economici. Per noi, invece, ci saranno ricadute negative", pronostica l’economista Michele Geraci, sottosegretario al Mise nel governo Conte I su indicazione di Matteo Salvini (che ora sul BRI sembra aver cambiato idea). Ricorda Geraci, già docente a Shanghai: "Le nostre imprese proprio grazie alla Via della Seta potevano fare accordi e essere tutelate nei 150 paesi partner nel Memorandum", ora, "a partire da quelle del Nordest", potrebbero pagare caro "l’attacco suicida" del governo. Carlo Calenda, dai banchi dell’opposizione, applaude invece lo stop: "Decisione sacrosanta. Avere buoni rapporti con la Cina e diventarne una pedina in Ue sono cose molto diverse".