Le elezioni regionali liguri hanno di nuovo messo in evidenza la strutturale asimmetria tra un centrodestra unito, sostenuto da una base elettorale abbastanza stabile e omogenea, e un centrosinistra attraversato da divisioni apparentemente insuperabili. In questo caso, gli effetti di tali divisioni sono apparsi molto evidenti, perché il centrosinistra partiva in vantaggio. Alle Europee l’insieme dei partiti riuniti a sostegno di Andrea Orlando aveva totalizzato in Liguria il 48% dei consensi, senza contare Italia viva e +Europa, allora promotori di una lista comune che in Liguria prese il 3,7%. I partiti del centrodestra avevano totalizzato il 44%. L’uscita di scena burrascosa di Giovanni Toti aveva poi creato un ulteriore elemento di favore, tanto che quella affidata a Marco Bucci sembrava una missione impossibile.
La consueta analisi dei flussi che abbiamo condotto al Cattaneo – pubblicata ieri anche su questo giornale – ha mostrato che il risultato deriva principalmente da due fattori ricorrenti: da un lato i cedimenti dell’elettorato Cinquestelle verso l’astensione in elezioni locali, dall’altro la preferenza accordata dagli elettori dell’area liberal-europeista (Azione, Italia viva, +Europa) al candidato del centrodestra e alle sue liste civiche. Nelle elezioni liguri questo secondo fenomeno ha assunto dimensioni tali da renderlo da solo sufficiente a invertire il pronostico.
È però riduttivo pensare che il problema sarebbe stato risolto dando a Matteo Renzi una sedia al tavolo della coalizione. Lo dicono di nuovo le stime sui flussi che, su questo punto, sono abbastanza solide. Il voto in uscita verso il centrodestra è arrivato anche da elettori che alle europee avevano sostenuto Azione o +Europa, non solo dai fan di Renzi. Si tratta di una quota pari a circa il 2,5-3% degli aventi diritto che equivale a circa il 5-6% dei voti validi per le regionali.
Il problema per il centrosinistra è più profondo, e ha tre dimensioni. Nasce, in primo luogo, dal fatto che sia il Movimento 5 Stelle sia i vari segmenti dell’area liberal-europeista sono nati teorizzando il superamento del bipolarismo. I primi autoproclamandosi estranei e in opposizione a tutti, i secondi autoproclamandosi elemento di congiunzione tra le componenti moderate dei due poli con l’obiettivo di mettere fuori gioco le posizioni estreme. Non solo hanno attratto elettori mal disposti verso la logica bipolare. Hanno fomentato questa predisposizione.
Ora che le due teorie si sono dimostrate entrambe fantasiose, devono persuadere i loro elettori a cambiare idea e non è facile. Qualcuno inevitabilmente lo perdono. È ancora meno facile a causa della distanza ideologica che li separa, che separa cioè i “populisti” e i “liberali” di sinistra. Ed è ancora meno facile a causa di un terzo problema strutturale: gli irrisolti conflitti di ambizione all’interno di ciascuna delle due aree. Tra Grillo e Conte, tra Calenda e Renzi, soprattutto. Per “convertire” quei due elettorati alla logica delle coalizioni, dentro la dinamica bipolare, servirebbe, da una parte e dall’altra, una leadership forte e univoca. Una condizione necessaria anche per rendere gli accordi di coalizione stipulabili e credibili.
Dunque, fino a quando populisti e liberali di sinistra non avranno trovato al loro interno un nuovo equilibrio, Elly Schlein potrà fare tutto il possibile per essere accomodante e inclusiva, potrà anche vincere singole competizioni locali, ma l’insieme di cui aspira a essere baricentro e leader difficilmente reggerà alla prova ultima delle elezioni politiche.