Roma, 8 novembre 2023 – La proposta del governo Meloni assomiglia, nella sua ispirazione di fondo, a quelle avanzate dai governi Renzi (2016) e Berlusconi (2006), ma anche a quella contenuta nel Testo A della Commissione D’Alema (1997). Il premierato forte fu allora posto in alternativa al semipresidenzialismo (Testo B): il centrodestra preferiva il secondo, il centrosinistra il primo. L’aspirazione dei quattro progetti citati all’inizio è identica: creare le premesse per elezioni decisive che assicurino la maggioranza parlamentare alla coalizione più rappresentativa e solide prospettive al leader della stessa coalizione di guidare il governo per tutta la legislatura. Siamo insomma tornati alla casella iniziale di un infinito gioco dell’oca in cui nessuno mai vince.
Il testo A del 1997 prevedeva una investitura del primo premier della legislatura ancora più diretta, cioè non mediata dal Quirinale e dal Parlamento, della proposta Meloni. Prevedeva "la candidatura alla carica di primo ministro mediante collegamento con i candidati all’elezione della Camera dei deputati" e "la pubblicazione del nome del candidato primo ministro sulla scheda elettorale". Prevedeva inoltre che il candidato della coalizione vincente fosse nominato primo ministro dal presidente della Repubblica ed entrasse in carica immediatamente dopo la proclamazione del risultato elettorale, senza nemmeno passare per il voto di fiducia. Quella proposta rafforzava molto di più i poteri del primo ministro, il quale poteva decretare lo scioglimento della Camera. Prevedeva poi che il premier potesse essere sostituito, evitando le elezioni anticipate, solo con un voto della Camera espresso in tempi strettissimi e a maggioranza assoluta. Come quelle del 2006 e del 2016, lasciava inoltre alla sola Camera il potere di ritirare e conferire la fiducia al governo.
Quindi, il vero nodo non è l’elezione diretta! Scartata l’ipotesi che si torni immediatamente al voto in tutti i casi in cui il primo premier della legislatura si ammala, muore o si dimette, l’alternativa è tra regole anti-ribaltone rigide e aggirabili come quelle dal progetto Meloni, da un lato, e maggiori strumenti indiretti di dissuasione delle crisi messi nelle mani del premier, dall’altro. In ogni caso, tutto dipende dalla possibilità che si possa realmente congegnare una legge elettorale, sostenibile di fronte alla Corte Costituzionale, che assegni sempre e comunque il premio di maggioranza alla stessa coalizione in entrambe le camere. Posto che la proposta Meloni lascia intatto il bicameralismo paritario.
È comunque certo che regole simili non costituiscano uno "stravolgimento della Costituzione". Chi lo sostiene, dovrebbe concludere che tutte le principali forze e aree politiche della Seconda Repubblica siano state, prima o poi, costituzionalmente eversive. D’altro canto, se anche la proposta Meloni risultasse alla fine tecnicamente più convincente, la corsa verso l’approvazione finale rimarrebbe in salita. Al netto di nicchie di riformisti appassionati, per l’opposizione del giorno sarà troppo più semplice ed elettoralmente conveniente fare le barricate, come è accaduto a parti invertite nel 2006 e nel 2016. Le farà, ovviamente, una opposizione divisa su molto altro, a cui il governo offre l’opportunità di combattere unita una battaglia campale in cui la polarizzazione affettiva, cioè il (pre)giudizio pro e contro la premier, è destinato a pesare molto di più del contenuto effettivo della riforma.
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