Roma, 10 maggio 2023 – Dicono sia politica ma al momento è solo tattica. A voler essere generosi, politica al servizio della tattica. Le squadre si stanno studiando, stanno studiando l’avversario e senza darlo troppo a vedere anche chi è seduto al proprio fianco. Perché tutti sanno una cosa: non ci sarà un girone di ritorno, e basti vedere che cosa è accaduto a chi nel recente passato ha toccato le riforme istituzionali. La posta in palio è altissima.
L’idea generale, ecco appunto la tattica, è per adesso quella di usare la riforma istituzionale come arma da spendersi nella prossima campagna elettorale per le europee, vero e proprio midterm italiano. Il fatto che la premier abbia sottoposto alle opposizioni solo proposte che contemplavano un’elezione diretta conferma la sua intenzione di prefigurare uno schema d’azione per sé ma anche agli altri, riducendo per Schlein, Conte e altri cespugli gli spazi di manovra, obbligandoli già da adesso a una (poco possibile) convergenza o (più probabilmente) confinandoli a un gioco di rimessa. Puntando ad approvare di qui a fine anno la riforma almeno in prima lettura, per poi presentarsi con questa in mano agli elettori (ai quali, almeno questa l’intenzione, nel frattempo avrà confermato l’ultimo taglio del cuneo fiscale e se trova i soldi anche una riduzione delle tasse nella tredicesima), e stare a vedere come va il gioco. Contando sul generale gradimento degli italiani per l’elezione diretta di chi governa, presente trasversalmente (ieri Euromedia Research lo quantificava nel 46,6%) e in particolare nel proprio elettorato (la stessa ricerca lo dava al 73%). La premier sa che vincere un referendum costituzionale è questione sì di contenuto, ma anche di tempi. In fondo Renzi perse il suo perché andò a votare quando la sua stella presso l’opinione pubblica era già in caduta. Un rischio che la Meloni non intende ripetere, così si concluderà l’iter della riforma solo se le europee andranno bene. In quel caso subito verso i secondi passaggi parlamentari e in autunno 2024 inoltrato referendum confermativo. Questo schema in testa agli uomini dell’inner circle meloniano parte da alcuni punti (da loro ritenuti) di forza ma deve ovviamente anche sconta (oggettive) difficoltà.
Il primo punto di forza si chiama Matteo Renzi, e la sua voglia di tornare al centro dei giochi politici. Il leader di Iv non può certo essere accusato di opportunismo visto che la formula "sindaco d’Italia" l’ha addirittura inventata lui ma evidente che un si del Terzo polo spacca il fronte delle opposizioni, e permette alla Meloni di non presentare la riforma come una forzatura. Una posizione da cui Renzi (e Calenda a rimorchio) hanno solo da guadagnare.
Il secondo si chiama Schlein. La segretaria Pd è rimasta ferma sulla posizione del cancellierato e da lì non intende muoversi. Un arrocco però molto rischioso per i Dem. Difficile ad esempio per il Pd sostenere che l’attuale iniziativa governativa sulle riforme sia solo un diversivo, a fronte di un sistema inceppato che negli ultimi dieci anni ha fatto nascere sei governi su sette non direttamente espressione della volontà popolare, che due volte consecutive non ha saputo eleggere un nuovo presidente della repubblica, e registra tassi di disaffezione dalla politica allarmanti. O che l’elezione diretta di premier o presidente della Repubblica è un attentato alla democrazia quando nel ’97 la bicamerale D’Alema si concluse con una proposta semipresidenziale o dall’Ulivo in poi è stato il centrosinistra a introdurre il concetto di "candidato premier" (nel 2008 il Pd si presentò addirittura con il nome di Veltroni nel simbolo). Contraddizioni che la Meloni intende far emergere.
L’ultimo punto di forza per la Meloni è il Movimento 5 Stelle, e la voglia dell’avvocato del popolo di non restare attaccato, isolandosi, al carro del Pd. Ieri i Cinquestelle sono stati coperti, almeno ufficialmente, ma i segnali di interlocuzione tra Conte e la Meloni non mancano (vedi la vigilanza Rai). Peraltro, e anche qui vengono in aiuto i sondaggi, se c’è una figura nel centrosinistra che vanta tassi di popolarità personale pari a quella della premier è proprio Conte, allo stato attuale l’unico che in un eventuale faccia a faccia potrebbe contenderle la premiership. Almeno così pensa il capo 5S. Una pia illusione forse, ma tanto potrebbe bastare a non indurre i grillini a rintanarsi sull’Aventino e a ritagliarsi uno spazio tra i non pochi elettori del centrosinistra (circa uno su quattro) che sono comunque favorevoli a una qualche forma di elezione diretta.
La difficoltà vera per la Meloni è invece principalmente all’interno della coalizione. La Lega proprio in vista delle europee non può certo ammainare la bandiera dell’autonomia differenziata, pena passare come junior partener di FdI. I segnali già ci sono e la Meloni farà bene a non sottovalutarli. Anche Salvini non sostanza vorrà il suo pezzo di posto al sole. Per lo meno fino alle europee, quando si voterà con il proporzionale, ognuno correrà per sé e si disegneranno gli equilibri politici del paese fino al termine della legislatura.