Roma, 6 dicembre 2016 - Dimettersi dal governo per ottenere un reincarico lampo e, pur dimissionario, restare in carica per portare il Paese a voto a febbraio, sciogliendo le Camere a dicembre (il precedente c’è, quello del governo Monti rimasto in carica, dimissionario, fino alle elezioni 2013). Oppure restare segretario del Pd per convocare primarie anticipate (senza fare né anticipare un vero congesso con la trafila consueta) ma indire primarie «aperte», come fece Pier Luigi Bersani nel 2012 quando le vinse proprio su Renzi, entro gennaio-febbraio, restare segretario e candidarsi per il voto. Nel frattempo, sostenere un governo «di scopo» che abbia la funzione di scrivere una nuova legge elettorale e votare a marzo-aprile 2017 con lui candidato premier. Questa la nuova road map di Renzi.
TRE le mosse, tattiche e politiche, assai spericolate. La prima. Dimissioni «irrevocabili» da premier ma «politiche», quelle «tecniche» arriveranno venerdì col via libera alla manovra economica in Senato. Da venerdì in poi, quando Renzi tornerà ad avere le «mani libere», potrà salire al Colle per le consultazioni in qualità di ‘semplice’ segretario del Pd. E qui c’è la seconda mossa, il rapporto con Mattarella. Renzi accetterà di sostenere un nuovo governo non guidato da lui, ma da uno dei suoi (Padoan?), solo se il Capo dello Stato accetterà l’idea del «governo di scopo» per fare la legge elettorale e andare al voto subito. E un governo «istituzionale», a guida Grasso? «Dovrà trovarsi i voti», dicono duri i suoi.
INFINE, il terzo corno del dilemma, quello del partito. L’altra notte, il premier ha avuto la forte tentazione di «mollare tutto», compresa la carica di segretario, e tornarsene a casa, moderno Cincinnato che lascia la politica. «Solo davanti a un Paese allo sfascio e in deriva – racconta un senatore renziano – accetterebbe di tornare, chiamato». Poi, però, smaltita la rabbia e la delusione, Renzi ci ha ripensato. La cerchia dei fedelissimi (Lotti, Guerini), ma anche le tre anime della maggioranza che regge, con lui, il Pd – quella di Franceschini (Area dem), quella dei Giovani Turchi (Orfini) e quella di «Sinistra è cambiamento» (Martina e altri) – lo hanno convinto a restare «almeno» segretario del Pd e a rilanciarsi. Renzi ha accettato, ma a due condizioni capestro per tutti, a partire da alleati “non renziani” nelle cui fila (franceschiniani e Giovani Turchi in testa) serpeggiano già i malumori di chi vorrebbe sostenere un «governissimo» che arrivi a fine naturale legislatura. La prima condizione è sul governo: «Apppoggerò un nuovo governo – ha detto ai suoi – solo se avrà lo scopo di fare la legge elettorale e portarci a votare in pochi mesi». Alle brutte, se il Parlamento non ci dovesse riuscire, cosa peraltro probabile, «sarebbe la Consulta» – ragiona un renziano – «a scrivere la nuova legge elettorale con la sentenza sull’ Italicum e l’adattamento del Consultellum al Senato».
Ieri, Luca Lotti, ha scritto su Twitter: «Dopo il 40% del 2012 e del 2014, ripartiamo dal 40% di ieri». Il senatore Andrea Marcucci a QN dice: «Auspico che Renzi resti segretario, dia il via libero a un governo per il disbrigo degli affari correnti, il Parlamento o la Consulta facciano la legge elettorale e si vada a votare entro marzo-aprile 2017 dopo un congresso ‘volante’, veloce». Di questo si discuterà domani in Direzione, sempre che non venga rinviata: se ne vedranno delle belle. La sinistra dem, ringalluzzita dalla vittoria del No, non ne vuole neppure sentir parlare. Ieri sera D’Alema ha detto: «Le dichiarazioni sul 40% sono folli, il congresso si deve fare a scadenza naturale (novembre 2017, ndr ), servono nuovo governo e nuova legge elettorale». Roberto Speranza e i bersaniani assicurano: «Non chiederemo le dimissioni di Renzi da segretario», «la discussione non può partire dal congresso» (Zoggia), ma «dalla sconfitta subita» (Stumpo). Per ora, sono parole ‘di minoranza’. Solo se Franceschini – i cui colonnelli chiedono a Renzi «una gestione collegiale del partito» – e altri pezzi di maggioranza lo abbandonassero al suo destino, gli equilibri nel Pd salterebbero. Sotto punto di vista, il silenzio del ministro Orlando è eloquente.