Roma, 20 gennaio 2025 – Nell’ormai lontano 2003, Pier Ferdinando Casini – da presidente della Camera – fu il primo rappresentante delle istituzioni del nostro Paese a recarsi sulla tomba di Craxi ad Hammamet. A soli tre anni dalla sua scomparsa, in molti storsero il naso. Ora l’omaggio non fa scandalo: crea invece perplessità la scelta di non aver agevolato il ritorno del leader socialista per offrirgli le cure necessarie in Italia.
Presidente, come giudica il fatto che Craxi non si sia potuto curare nel suo Paese? "Oggi mi sembra orribile, lo era anche ieri ma la vigliaccheria ha fatto mettere a tanti politici al primo posto l’idea che fosse meglio non sfidare l’opinione pubblica – risponde il senatore, eletto come indipendente nelle liste del Pd –. D’altronde, la mancanza di umanità per garantire a Craxi le cure sanitarie migliori coincide con la mancanza di dignità che ebbe il Parlamento quando il leader del Psi fece il famoso discorso sul finanziamento illecito dei partiti, concluso con la chiamata di corresponsabilità e la sfida, a chi volesse smentirlo, a sbugiardarlo in Aula. Tutti rimasero in silenzio".
Visto il clima che c’era all’epoca, perché lei decise di sfidare l’opinione pubblica? "Mi sembrava giusto riconoscere la dimensione politico-istituzionale di Craxi. La politica non è un pranzo di gala. A volte significa scelte dolorose. È stato giusto liberare un cittadino iraniano per avere Sala indietro? In termini etici forse no, ma in termini politici mi sarei comportato come il governo italiano. Craxi è stato un politico: non era un santo, ma neanche un diavolo. Venticinque anni dopo, la solennità del messaggio del Capo dello Stato mette le cose a posto".
Perché Craxi ha pagato per tutti? "Perché era un elemento cardine del sistema e perché ha sfidato i giudici ed è diventato l’avversario emblematico. Ma non è stato l’unico: ricordo un galantuomo come Forlani condannato ai servizi sociali, Andreotti accusato di essere il mandante di un omicidio con un percorso giudiziario infinito e, fuori dall’Italia, il più grande statista dell’Europa contemporanea, Kohl, condannato per gli stessi motivi di Craxi. Il clima era giustizialista, però in Italia il sistema si reggeva sul finanziamento illecito. E valeva per tutti: partiti di maggioranza e di opposizione".
Le tangenti non servivano solo per il finanziamento della politica: c’erano anche gli interessi più privati. "C’erano quelli che si arricchivano, ma Craxi non era tra questi".
Come ha cambiato la politica italiana Craxi? "È stato un innovatore sul piano istituzionale ma anche rispetto alla linea politica del Psi che aveva una tradizione di subalternità al Pci – basti pensare alla sfida ai sindacati con il referendum sulla scala mobile – e soprattutto è stato sublime sul piano della politica estera. Penso alla difesa della sovranità italiana a Sigonella dove ha sfidato gli Stati Uniti, alla consapevolezza che il movimento di liberazione palestinese dovesse essere costituzionalizzato e accettato dalla comunità internazionale come controparte per l’idea di due popoli e due Stati o all’aiuto ai movimenti di liberazione del Sudamerica dalle dittature militari".
Perché l’Italia non ha finito di fare i conti con il craxismo? "Figuriamoci: l’Italia non ha fatto i conti con la propria storia. Per dire, non abbiamo fatto i conti nemmeno con la Dc, il grande partito della Nazione. Quando sento Meloni dire che che finalmente l’Italia ha ripreso il suo posto nel mondo grazie al suo governo mi viene da sorridere. È comprensibile che voglia rivendicare una sua specificità, ma nella globalizzazione l’Italia oggi potrebbe perderlo il suo posto. Rischiamo l’irrilevanza, nonostante il ruolo della presidente del Consiglio".
Con la fine della Dc si è chiusa per sempre l’esperienza dei cattolici in politica con un loro partito? "Già negli ultimi anni di vita della Dc non c’era più l’unità dei cattolici attorno al partito, figuriamoci se si può ricreare oggi in condizioni diverse. Chi rappresenta i cattolici? Forse nemmeno il Papa... I cattolici sono una comunità di persone e votano per tutti i partiti, a destra come a sinistra".
Dal progetto di Ernesto Maria Ruffini, lanciato sabato a Milano, può nascere un partito non cattolico ma centrista? "Mi sembra che sia Prodi che Delrio lo abbiano smentito. Del resto sembra difficile immaginarli fuori dal Pd. Comunque, trovo legittima l’esigenza di allargare la riflessione interna al partito".
Tanto basta per riequilibrare lo sbilanciamento della coalizione a sinistra? "Bonino, Calenda e Renzi risponderebbero legittimamente di no".
Molti ritengono che questa opposizione non sia in grado di impensierire la maggioranza. È davvero così? "In effetti, c’è il rischio che l’opposizione di oggi sia un’opposizione di sua maestà: fa il suo lavoro nelle aule parlamentari con grande serietà, ma senza la reale prospettiva di un’alternativa vincente".
Cosa manca al centrosinistra? "Schlein ha rivitalizzato il Pd interrompendo la deriva verso una progressiva marginalizzazione. Ma essendo una donna intelligente non può non capire che è solo a metà dell’opera. E senza un disegno credibile che coinvolga settori più ampi e meno omologabili alla sinistra tradizionale non vincerà mai".