
La premier Giorgia Meloni
Roma, 17 marzo 2025 – Per fortuna (di Giorgia) che l’Europa è quella che è. Vaga, lentissima nel definire i punti precisi, soggetta sempre a discussioni infinite. In queste ore, la premier mette a punto il passaggio al Senato domani e alla Camera mercoledì, limando il suo intervento e la risoluzione di maggioranza con cui verranno approvate le sue comunicazioni. Va da sé che, sui punti critici, si confronterà con gli alleati. Se giovedì al Consiglio europeo Meloni avesse di fronte una decisione drastica, il suo compito sarebbe difficilissimo: evitare una rottura della maggioranza sarebbe impossibile. Ma così non è: l’ordine del giorno dell’Eurovertice è enciclopedico, va dall’Ucraina alla competitività, dalla difesa all’immigrazione. Una mano santa per chi deve spaziare.
Peraltro, le regole per la raccolta degli 800 (ipotetici) miliardi di Ursula von der Leyen sono ballerine. Per esempio, non si sa quanti paesi partecipano allo sforzo, c’è chi è neutrale (Austria) e può contribuire solo finanziariamente, chi come l’Ungheria non ci sta, e così via. Le maglie sono abbastanza larghe da offrire una via di fuga. Dunque, la premier in Aula resterà sul vago, parlerà di tutto, evitando parole che per Salvini sono tabù; una su tutte: riarmo. “Per l’Italia il problema è la frontiera a sud con l’immigrazione clandestina e il terrorismo islamico. Serve aumentare gli investimenti per rafforzare la sicurezza interna, non riarmi europei o difese comuni”, rilancia su X. Certo, se l’opposizione l’incalzerà, Meloni nella replica la parola riarmo dovrà pronunciarla. Ma cercherà di mettere le cose in modo che non suoni ultimativo, costringendo Salvini a votare contro. L’importante che non si tratti di dire sì o no al ReArmEu ma di dare un’indicazione sufficiente ampia perché tutti ci si ritrovino a loro agio. Sia i nemici giurati del riarmo, sia i paladini come Antonio Tajani: “Siamo alleati leali, ma abbiamo le nostre idee”. Oggi le porterà al summit dei ministri degli Esteri a Bruxelles, dove la premier potrebbe volare mercoledì sera per la cena organizzata dal gruppo Ecr.
Le cose sono un po’ più complicate quando si arriva ai soldi, ma anche qui corre in soccorso l’indeterminatezza del progetto. Al momento l’unico dato certo del piano sono i 150 miliardi del programma Safe, un nuovo debito comune che la Commissione emetterà per finanziare prestiti: la fetta per l’Italia balla intorno ai 15-18 miliardi. Sono soldi che vanno restituiti: di qui, l’idea del ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, di puntare su investimenti privati con garanzia Ue di 16,7 miliardi. Proposta che Meloni rilancerà in Aula ma che deve essere ancora discussa in Europa. Quanto alla seconda linea di spesa da 650 miliardi è teorica: i Paesi possono spendere fino all’1.5% del Pil in più in difesa (30-35 miliardi la somma per l’Italia in 4 anni) senza che i soldi vengano conteggiati nel Patto di Stabilità.
È una stima, ragion per cui ha gioco facile il Mef a chiedere di definire progetti e scadenze prima di pensare alle coperture. Già: la polemica italiana sulla parola riarmo non è un sofisma semantico. Si tratta di chiarire se quei soldi dovranno essere spesi solo in cannoni e tecnologia bellica o anche in infrastrutture e magari soldi per le forze dell’ordine. Anche qui la via d’uscita dovrebbe esserci: ecco perché la premier non è preoccupata. Vero è che il gioco dell’equidistanza diventa ogni giorno più difficile: la direzione che l’asse anglo-francese sta imprimendo alla politica europea è fortemente anti americana, e la formula cara a Meloni – lavorare assieme Ue ed Usa – non reggerà all’infinito. Il turning point però non coincide con il dibattito parlamentare. Il momento critico sarà il colloquio con Trump, perché potrebbe risultare impossibile continuare a stare con il piede in due scarpe. Ma quella data è ancora da definirsi.