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Francesco Gabbani a Sanremo
Roma, 20 aprile 2016 - «È UN CONTRASTO che fa male. Crescere negli anni Ottanta, immersi nel benessere di un paese florido, per ritrovarsi poi, a trent’anni, in un mondo che non prova neanche più a promettere niente». Francesco Gabbani, vincitore di Sanremo Giovani, classe 1982, racconta la sua generazione e le disillusioni di tanti: «Io sono un musicista e forse è un po’ nel mio dna una forma di evanescenza o di sopravvivenza, nel senso che magari non mi torturo interrogandomi sul futuro. Però...»
Però lei appartiene a una generazione che oggi appare come la più penalizzata, quella che non può permettersi di sognare né di progettare.
«Ne sono consapevole. E con dispiacere. Soprattutto perché, come tantissimi miei coetanei, sono cresciuto in un’epoca, gli anni Ottanta, di exploit commerciale, economico e in generale di vita. Chi più chi meno, con i miei amici abbiamo vissuto un periodo in cui i nostri genitori, diciamolo, stavano tanto meglio di quanto possiamo stare noi adesso. L’imprenditoria, o qualsiasi attività, offriva possibilità che oggi mi sembra non esistano più. Diciamo che la capacità di iniziativa, il sapersi inventare veniva spesso premiato».
Oggi quali cambiamenti vede?
«Anzitutto quest’ultimo punto. La voglia di fare, il coraggio di mettersi in gioco sono elementi che non bastano più. E a volte non bastano neanche se li sommi a una buona preparazione. I limiti sono tanti e ovunque, dunque mi sembra che il problema del pensionamento rispecchi proprio questo. Per chi vive o vorrebbe vivere in una dimensione di progettualità, se questa possibilità viene a mancare l’entusiasmo si riduce fino al minimo».
Una generazione, quindi, condannata all’infelicità?
«Penso purtroppo che, se non interviene qualcosa a bloccare questo meccanismo, dobbiamo tutti ridimensionare le aspettative e adeguarci alla realtà, per evitare di essere divorati dal senso di frustrazione. Che però è del tutto comprensibile. Sa quanti miei amici si sono sacrificati sui libri e laureati a pieni voti per passare poi dalla precarietà alla disoccupazione?».
Viene quasi da dire che sia più sicuro lavorare nello spettacolo che cercare il classico ‘posto’…
«È magari un paradosso, però secondo me è più sicuro fare l’artista nella misura in cui cambiano le prospettive. Diciamo che l’atteggiamento di un artista, giusto o sbagliato che sia, non è quello di voler programmare l’esistenza o pretendere trent’anni prima una vecchiaia piena di agi materiali. L’aspettativa gioca un grande ruolo, nel bene e nel male».
Ma può agire anche da stimolo. Fa bene chi va all’estero per cercare un lavoro migliore?
«Fa bene se viaggiare, avventurarsi, mettersi in gioco è parte del suo carattere. Se ci si va invece solo per disperazione, mi sembra un ulteriore modo di rovinarsi la vita. In generale, però, qui o altrove, la parola d’ordine è non arrendersi mai».