Roma, 9 luglio 2018 - I sindacalisti più fortunati hanno addirittura una pensione tre volte più alta a parità di contributi versati all’Inps. Per molti altri l’assegno dell’Inps, di fatto, è stato coperto con i soldi dei contribuenti. Nessuno, naturalmente, mette in discussione l’importanza del sindacato. Per lunghi periodi, però, i rappresentanti dei lavoratori hanno continuato ad accumulare posizioni di privilegio. Magari non così ricche come quelle degli onorevoli parlamentari. Ma sufficienti per parlare di una piccola ‘casta’.
Pensioni d'oro. È stato l’attuale presidente dell’Inps, Tito Boeri, a puntare l’indice sul meccanismo che consente ai sindacalisti di ricevere una pensione il 30% più ricca rispetto alla media. Il sistema è pienamente lecito dal momento che è previsto da una legge dello Stato, la 564 del 1996. I sindacalisti, infatti, possono contare sulla cosiddetta ‘contribuzione aggiuntiva’ versata dall’organizzazione nella quale militano. Questi contributi, però, sono più ‘pesanti’ rispetto a quelli di tutti gli altri cittadini. Perché aprono le porte a un assegno Inps calcolato non sulla base di quanto effettivamente versato ma sull’ultima retribuzione. Il risultato è che un esercito di circa 18mila sindacalisti riceve trattamenti Inps molto superiori alle somme effettivamente versate. La circolare che dovrebbe correggere questa distorsione è pronta ma è rimasta chiusa nei cassetti dell’ex ministro del Lavoro, Giuliano Poletti. Il suo successore, Luigi Di Maio, si è impegnativo a riesumarla anche se difficilmente si potrà agire su coloro che hanno già maturato il diritto. I
Contributi. I sindacalisti possono contare anche su un altro trattamento di favore. Anche in questo caso, all’origine del privilegio, c’erano ragioni nobili: tutelare chi sceglieva generosamente di difendere i diritti e gli interessi dei lavoratori contro lo strapotere dei padroni. Negli anni, però, si è passati da un eccesso all’altro. Con le attuali regole, infatti, chi sceglie la carriera sindacale può optare per due sistemi: quello del distacco e quello dell’aspettativa senza stipendio. Nel primo caso, retribuzione e contributi continuano ad esser pagati dal datore di lavoro originario anche se di fatto il sindacalista fa un altro mestiere. Una situazione praticamente assente nel settore privato e piuttosto diffusa in quello pubblico. Nel secondo caso, quello dell’aspettativa non retribuita, i contributi continuano ad essere a carico dello Stato, dal momento che sono ‘figurativi’, cioè conteggiati senza essere versati. Sia nel primo sia nel secondo, la pensione di fatto viene pagata dai contribuenti.
Gli stipendi dei big. Ma quanto guadagna chi fa sindacato? Naturalmente non tutti se la passano bene. Sono molti quelli che s’impegnano ricevendo in cambio dei sacrifici solo qualche rimborso per le spese o che hanno stipendi allineati a quelli dei lavoratori che rappresentano. Diverso invece il caso di dirigenti di vertice. Susanna Camusso incassa ogni mese circa 4mila euro netti. Un segretario nazionale, invece, ne guadagna mille in meno. Anche lo stipendio di Maurizio Landini, ex leader della Fiom, si attesta sui 2.250 euro netti, il doppio di un operaio metalmeccanico. Allineata alla Camusso, lo stipendio del segretario generale della Cisl, Annamaria Furlan: 3.964 euro al mese. Bocche cucite, invece alla Uil dove l’unica cosa nota è la pensione di Carmelo Barbagallo: 2.800 euro netti al mese dopo 47 anni di contributi. Dal calcolo degli stipendi dei vertici, ovviamente, sono esclusi benefit e rimborsi, spese di staff e di rappresentanza. Il problema è che ancora oggi i bilanci dei sindacati sono sottoposti alle stesse regole di quelle di un’associazione parrocchiale, pur movimentando milioni di euro. L’ennesimo ‘privilegio’ da abbattere.