Lunedì 18 Novembre 2024
ETTORE MARIA COLOMBO
Politica

Leadership Pd, sprint di Zingaretti. Franceschini con lui, siluro a Renzi

L'endorsement e le stoccate dell'ex ministro fanno infuriare l'area ancora guidata dall'ex premier

Dario Franceschini e Nicola Zingaretti (ImagoE)

Dario Franceschini e Nicola Zingaretti (ImagoE)

Roma, 3 settembre 2018 - Da ieri è chiaro a tutti, dentro e fuori il Pd, che il candidato da battere, al congresso straordinario che si terrà nel 2019 – probabilmente prima delle elezioni europee di maggio – si chiama Nicola Zingaretti e fa il governatore del Lazio. Ieri Zinga era a Cortona, dove si è riunita la rediviva Area dem, cioè la corrente dell’ex ministro Dario Franceschini, per «ricevere l’investitura» come spiegano, con discreta ironia, i suoi. «Il congresso del Pd – dice Zingaretti – ha senso se diventa un grande processo popolare per riscrivere un’agenda per il futuro del Paese, non per decidere nomi o leader, l’ultimo dei problemi. Faccio un appello a tutti gli italiani: iscrivetevi al Pd».

La cosa curiosa è che i renziani, tranne quelli più assatanati, invece di attaccare Zingaretti («lavora per tenere unito il partito» dicono) se la prendono con Franceschini che invece «cerca lo scontro». Comprensibile, dal loro punto di vista. Franceschini – passato, senza soluzione di continuità da Veltroni a Bersani e poi a Renzi – ha deciso che è ora di appoggiare Zinga . Ieri, peraltro, l’ex ministro – penalizzato nella formazione delle liste da Renzi – si è tolto vari sassolini dalle scarpe, chiudendo l’assise di Cortona.

«Dobbiamo entrare nelle contraddizioni di Lega e M5S, avremmo dovuto fare di più per evitare questa alleanza populista, invece abbiamo buttato il M5S in mano a Salvini. Di fronte a quanto accade – conclude Franceschini con chiara stoccata a Renzi, che non nomina mai ma a cui rimprovera tutto, a partire dall’idea di un partito tutto azione e zero pensiero, legato solo al destino di un uomo – non si può mangiare pop-corn, i pop-corn sono finiti».

Zingaretti, peraltro, sostiene le stesse tesi, anche se con più furbizia: nega di volersi alleare con i 5Stelle («li ho sconfitti due volte nel Lazio») ma di voler ‘solo’ prenderne i voti, dice di voler «allargare il perimetro delle alleanze» (traduzione: riconnettersi ai cugini di LeU) e di voler promuovere «alleanze larghe, anche alle Europee, che servono come il pane», senza cioè liquidare Macron&co. Zingaretti vuole «tagliare netto» con il passato, invoca «meno autoreferenzialità, più collegialità» (altra stoccata a Renzi), ma assicura di non voler cambiare nome al Pd.

Nettare per le orecchie della sinistra interna e amaro fiele per quelle renziane. Il guaio dell'area ancora guidata da Matteo Renzi – forte nei gruppi parlamentari, sempre più debole nel partito – è che non ha un nome forte da contrapporre a Zingaretti. Delrio non ne vuol sapere, il segretario della Fim-Cisl, Marco Bentivogli, smentisce «anche solo di starci pensando», un’altra sindacalista, ex-Cgil, Teresa Bellanova, è ritenuta «brava, ma poco nota», e Roberto Giachetti è «troppo indipendente».

E dunque? Renzi potrebbe accarezzare, per paradosso, l’idea della fondazione di un altro, nuovo, partito, centrista, blairiano, macroniano che, a quel punto, potrebbe persino «agevolmente», dice un big renziano, allearsi «con un Pd che torna, legittimamente, a essere il Pds-Ds che fu».