Roma, 2 settembre 2018 - "Dieci piccoli indiani". Tanti, più o meno, se ne contano, di candidati alla guida del Pd del futuro. Matteo Richetti (renziano atipico), Deborah Serracchiani (renziana critica), e Roberto Giachetti (ex renziano, oggi vicino a Gentiloni, ma uno che pensa con la sua testa, è la new entry: gira le Feste dell’Unità, riscuote consensi, molti lo spingono a candidarsi, lui recalcitra) sono tre ‘diversamente renziani’. Poi c’è l’outsider cislino, segretario della Fim-Cisl, Marco Bentivogli, che ci sta pensando, Francesco Boccia (ex lettiano storico) per l’area Emiliano, Cuperlo per se stesso, il segretario-reggente attuale, Maurizio Martina, che ha una sua area. E, ovviamente, c’è il governatore del Lazio Nicola Zingaretti che passa da una Festa di partito a una del Fatto, da un convegno di area (tipo quello di Franceschini ieri) a una convention, quella che terrà a Roma a metà ottobre, si chiamerà ‘Piazza Grande’ e che servirà ad auto-candidarsi. Sono questi tutti, o quasi (ma ne arriveranno altri, almeno un paio), i candidati alla guida del Pd di domani. E Renzi? Matteo Renzi prepara, se non proprio una scissione, quantomeno una nuova svolta. L’ex segretario lancerà l’ennesima (è la nona) Leopolda il 19-21 ottobre a Firenze: già il titolo, ‘La prova del nove’, suona minaccioso, specie se alla guida del Pd arrivasse – Dio non voglia, ad occhi renziani – un ‘sinistro’ ex diessino come Zingaretti. Insomma, Renzi aspetta, sornione, incerto tra la voglia di revanche in mezzo alla sua gente e la voglia di fare altro. Di Pd parlerà il 6 settembre, in pubblico, alla Festa dell’Unità.
Certo è che il Pd, attualmente guidato dal segretario ‘ponte’ Maurizio Martina, che gira ossessivamente tutte le periferie, sembra finalmente tornato a godere di una qualche salute. Prova ne è che in un solo mese, quello di agosto, fa ben tre cose. Organizzala sua consueta festa nazionale dell’Unità a Ravenna e l’affluenza è "alta", assicurano gli organizzatori. Poi indice, per il 29 settembre, una manifestazione di piazza contro il governo gialloverde.
Un'idea, la manifestazione di piazza, che, per ritrovarne traccia, bisogna risalire a quando Veltroni, prima di dimettersi, portò al Circo Massimo nel 2008 due milioni di persone contro il governo Berlusconi. Infine, appunto, il Pd si prepara ad andare a un congresso straordinario anticipato (l’ultimo, quello del 2017, vide il trionfo di Renzi con il 69%). Il congresso si terrà nel 2019, quasi sicuramente prima delle elezioni europee (maggio), a gennaio-febbraio e verrà celebrato, ovvio, con le primarie. Poi c’è la ‘frizzante’ discussione di fine estate che ricorda leit-motiv antichi: il Pd deve cambiare nome? E con chi si deve alleare? E dove deve guardare, a destra o a sinistra? Per l’ex ministro Carlo Calenda, neo iscritto dem ma molto irrequieto, il Pd deve diventare un ‘Fronte democratico’. Per i sostenitori del ‘partito alla Macron’ (Sandro Gozi e altri) molto meglio ‘Movimento Democratico Europeo’. Per Zingaretti – o, meglio, per i suoi implacabili avversari – il Pd deve tornare a essere un… PdS (Partito della Sinistra). Zingaretti stesso, del resto, tuona contro «il capitalismo», vuol ricongiungersi con Leu e aprire al dialogo coi 5Stelle.
I renziani guardano ad aree civiche, non meglio identificate, a movimenti centristi, oggi morti, e a un partito più leggero. Certo è che, dopo il flop delle Politiche (18,7%), il risultato peggiore nella storia della sinistra a partire dal 1948, il Pd sembra essere tornato un partito ‘vivo’, non solo ‘vivace’. Il problema, tanto per cambiare, è il tema della leadership. I ‘Dieci piccoli indiani’ sono