Roma, 16 ottobre 2024 – Altro che effetto dissuasivo. In 48 ore mille arrivi in barchini e barconi sulle coste italiane. Anche per questo i 16 migranti – 10 bengalesi e 6 egiziani – che a bordo del pattugliatore Libra della Marina (con 70 militari a bordo) sbarcheranno stamattina al porto di Shëngjin, a nord di Tirana, sono destinati a passare alla storia. Perché saranno i primi a sperimentare la struttura di gestione dei flussi migratori nata con accordo bilaterale Italia-Albania: una scelta di governo fortemente voluta da Giorgia Meloni quanto fieramente avversata da opposizioni, ong, mondo cattolico, giuristi: “È una deportazione”.
Nel mezzo, l’Europa. Sul tema degli “hub di rimpatrio al di fuori dell’Unione”, scrive la commissaria europea Ursula von der Leyen nella consueta lettera ai capi di Stato e di governo Ue, “con l’avvio del protocollo Italia-Albania saremo in grado di trarre lezioni da questa esperienza nella pratica”. In ballo anche la revisione del “concetto di Paesi terzi sicuri designati”. Forse l’anticipo di un cambio di paradigma. E domani – in una riunione ad hoc convocata a margine del summit Ue – Italia, Danimarca e Olanda proveranno a creare un fronte molto più largo. “Il pericolo è che si gestiscano le persone come merci o oggetti non desiderati”, denuncia padre Camillo Ripamonti, presidente del Centro Astalli.
Arrivati a Shëngjin accompagnati da personale Unhcr-Oim, i migranti completeranno l’identificazione avviata a bordo della Libra, poi effettueranno la visita medica, parleranno coi mediatori culturali, riceveranno cibo, acqua e indosseranno vestiario uguale per tutti (come neppure in carcere): una tuta nera. Terminata le procedure di prima accoglienza, partenza immediata per Gjadër, frazione rurale di Lezhe dove si trova il centro vero e proprio – egualmente a giurisdizione italiana – costruito in accordo con il governo albanese. La parola “lager” non piace al ministro degli Interni Matteo Piantedosi: “contenimento leggero”, “non c’è filo spinato”.
Il filo spinato non c’è, ma le barriere sul perimetro esterno sono alte 5 metri, le cancellate sono d’acciaio e l’interno del centro – oltre ai corpi di guardia e ai moduli per il personale di polizia – prevede diverse aree separate: un Centro di trattenimento da 880 posti per i migranti che chiederanno asilo; un Centro di permanenza e rimpatrio da 144 posti per i respinti; infine una struttura detentiva da 20 posti (in caso di rivolte, risse o altri reati), con agenti di custodia al piano superiore e un’aula dove procedere per direttissima (giudice e avvocati d’ufficio in videocollegamento). Il cibo? Arriverà già porzionato da un fornitore esterno. Tutti i moduli abitativi sono prefabbricati di 15 metri quadrati per quattro persone con letti imbullonati al suolo. Non è esercizio di fantasia che, in spazi simili, nei rigidi inverni e nelle calde estate albanesi la vita possa essere complicata.
L’auspicio dell’esecutivo perché il centro funzioni a pieno regime, anche tenuto conto delle distinte capienze, è che ogni migrante esaurisca il percorso di formalizzazione e registrazione della domanda di protezione internazionale, colloquio, valutazione ed eventuale ricorso al giudice contro la decisione della Commissione territoriale in un mese. Ma è difficile, se non impossibile, che tempi così stretti possano essere rispettati. Inoltre, se i giudici, come sta accadendo con una certa frequenza, si opponessero al trattenimento dei richiedenti nelle more dell’esame della domanda, il trasferimento in Italia comporterebbe un ulteriore aggravio di spesa. Secondo l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione ben 19 eccezioni sono sollevabili durante le udienze di convalide dei trattenimenti. Una manna per gli avvocati d’ufficio.
Ma il vero punto interrogativo riguarda i rimpatri di chi fosse ritenuto senza titolo per la protezione internazionale. L’Italia al momento ha accordi solo con la Tunisia. Per tutti gli altri Paesi bisognerebbe organizzare voli e passaggi navali. Direttamente dall’Albania? Ancora non si sa.