FIRENZE, 6 GIUGNO 2019 - Dopo una raffica di bocciature di ordinanze e regolamenti varati da organismi politici e tecnici a ogni livello, la decisione del tribunale amministrativo della Toscana con cui martedì è stato dato lo stop alle cosiddette ‘zone rosse’, non aveva destato grande scalpore. Invece è la prima goccia d’acqua che avvisa della tempesta in arrivo. Il Viminale non si limita ad annunciare il ricorso al Consiglio di Stato contro la sentenza di Firenze per il ripristino dell’ordinanza prefettizia che vuole allontanare i balordi dalle 17 zone più calde della città, ma intende rivolgersi all’Avvocatura dello Stato anche per le sentenze di Firenze e Bologna relative all’iscrizione all’anagrafe di alcuni cittadini stranieri.
ED ECCOCI all’occhio del ciclone. Per circostanziare i sospetti maturati sulle sentenze a orologeria dei giudici, il ministero dell’Interno rende pubblico un puntuale dossier cucito addosso a tre magistrati di Firenze e Bologna, accusati in qualche modo di non essersi tenuti a debita distanza da prese di posizioni politiche. In un momento così delicato, la nota fa il botto. E non bastano le parole del vicepremier Salvini a tirare il freno di emergenza. «Non intendiamo controllare nessuno né creare problemi alla magistratura, soprattutto in un momento così particolare e delicato come quello che sta vivendo il Csm», prova a minimizzare il ‘Capitano’ della Lega.
MA ORMAI è tardi. E nella nota ricompare, ombra inquietante, lo spettro delle toghe rosse che piegano le sentenze in base alle idee politiche dei magistrati. Nel mirino del Viminale ci sono il presidente della seconda sezione del Tar toscano, Rosaria Trizzino, e i giudici Luciana Breggia (tribunale di Firenze) e Matilde Betti (tribunale di Bologna): la prima colpevole di aver spazzato via le zone rosse, la seconda e la terza invece, prima a Bologna il 27 marzo e poi a Firenze, il 27 maggio, di non avere accolto il ricorso del ministero contro la decisione che disponeva l’iscrizione nel registro anagrafico di due cittadini stranieri richiedenti asilo. Tre sentenze in due mesi che hanno sollevato sospetti.
Si dettagliano le amicizie dei giudici, le frequentazioni, i discorsi tenuti in pubblico «con riviste sensibili al tema degli stranieri come ‘Diritto, immigrazione e cittadinanza’ o con avvocati dell’Asgi (l’Associazione studi giuridici per l’immigrazione) che hanno difeso gli immigrati contro il Viminale». Comportamenti ritenuti inappropriati. Gli avvocati dello Stato dovranno dire se quando i giudici hanno emesso sentenze relative ai migranti «avrebbero dovuto astenersi, lasciando il fascicolo ad altri», per aver assunto «posizioni in contrasto con le politiche del governo in materia di sicurezza, accoglienza e difesa dei confini».
DA PARTE sua, Salvini nega di voler cercare lo scontro, ma di fatto poi lo insegue dicendo: «Abbiamo bisogno di una magistratura forte libera e indipendente, ma contesto che se un giudice fa un dibattito a favore dell’immigrazione e poi il giorno dopo emette una sentenza su un immigrato, allora non fai il giudice e ti candidi alle elezioni, vai in Parlamento e cambi le leggi».
IMPOSSIBILE fermare la macchina in corsa. La prima reazione, di una lunga catena, è del comitato direttivo centrale dell’Associazione nazionale magistrati che «esprime sconcerto» a fronte degli attacchi. In seguito a un provvedimento collegiale «si è ipotizzato l’intento politico del giudice, diretto a disapplicare norme di legge, a fronte di un provvedimento sgradito». Un atteggiamento stigmatizzato dall’Anm e che «porta discredito sull’intera funzione giudiziaria e perdita di serenità da parte di chi la esercita», per cui si chiede l’intervento del Consiglio superiore della magistratura «a tutela dell’autonomia e dell’indipendenza della giurisdizione».
MENTRE l’Arci parla esplicitamente di «dossieraggio» da parte del ministro, il sindaco di Firenze Dario Nardella dichiara di trovarsi in mezzo a una deriva più che imbarazzante, pericolosa: «Salvini pretende che i giudici si adeguino alle politiche del governo – dice –. Siamo oltre ogni principio democratico di rispetto della separazione dei poteri».