Roma, 1 novembre 2019 - Ugo Grassi, senatore grillino, probabilmente sarà il primo a prendere la porta del gruppo misto al Senato con l’intenzione di restarci. Ma non sarà il solo. Gianluigi Paragone resta tra i ‘non pervenuti’ e forse qualcun altro ci pensa a mollare tutto e via. Perché anche quella che si è svolta ieri sera a Palazzo Madama, presente il leader 5 stelle, Luigi Di Maio, non è stata affatto un’assemblea risolutiva. I malumori, soprattutto dopo la batosta umbra, continuano a essere molto forti, nonostante all’esterno si cerchi di stemperare parlando di ’clima sereno’. Si va verso una sorta di stati generali del Movimento da convocare ad aprile, ma intanto si partirà subito con la composizione della squadra dei ’facilitatori’ che affiancheranno il capo politico nella gestione di un soggetto politico turbolento, soprattutto nei rapporti con il territorio.
Perché i Cinque Stelle stanno cambiando pelle, ma in direzioni diverse; l’obiettivo politico finale non è unanime. C’è chi vorrebbe contaminarsi con il Pd, sciogliere il M5s in un’ area progressista con il cuore verde. Un bastione contro l’ avanzata della destra sovranista. Proprio come vorrebbe Grillo, ma anni luce dalla visione di Di Maio, che, invece, pare comunque avere un obiettivo di corto respiro: «Questo governo – ha detto ieri durante l’assemblea – deve andare avanti non solo per la salute del Paese, ma anche per il bene del Movimento che deve realizzare un programma elettorale ambizioso».
L’assemblea dei senatori, che pare aver seguito il suo ragionamento, ieri ha concordato di ‘evitare’ nuove avventure come quella umbra, ma restano fin troppe incognite. Soprattutto sul fronte alleanze. In Emilia-Romagna e Calabria l’alleanza con il Pd pare non praticabile. È una linea che Di Maio rivendica perché il rischio, secondo alcuni suoi fedelissimi, è che il M5S si trasformi in una stampella a una cifra del Pd. Una sorta di «centro alfaniano», viene sottolineato, idea che Di Maio rifugge. Così, alle regionali di gennaio, correranno soli. Soli in Emilia-Romagna, dove la possibilità di non candidarsi è tramontata anche perché, spiegano dai vertici, «non è quello che vogliono i territori». Diversamente, in Calabria, un’ipotesi di alleanza c’è, ma con una o due liste civiche. «È con un candidato forte la vittoria non è un tabù».
Molta carne al fuoco, forse troppa perché ci sia a breve la possibilità di una sintesi. All’esterno come all’interno. Alla Camera, d’altra parte, sono ancora incartati nella scelta del capogruppo. Lunedì scatterà il termine ultimo per presentare le candidature e mercoledì si voterà per la sesta volta, dopo che per ben cinque volte c’è stata fumata nera. In teoria bisognerebbe arrivare con un nome solo. Quello di Riccardo Ricciardi circola con più insistenza rispetto agli altri. Ma lui non si sbottona: «Ancora è tutto da vedere, non si sa nulla, stiamo discutendo».
Però dietro si agita una resa dei conti serpeggiante. Le fronde, oggi, si compongono e si scompongono. Ci sono gli ex ministri delusi (da Barbara Lezzi a Giulia Grillo, passando per Danilo Toninelli), i filo-leghisti come Paragone, gli scettici vicini ad Alessandro Di Battista, la nuova guardia disorientata. C’è anche un asse che ormai si è saldato e a cui Di Maio guarda con più attenzione degli altri: quello tra i parlamentari ’ortodossi’ legati a Beppe Grillo (come Carla Ruocco, il presidente dell’Antimafia Nicola Morra e il presidente della commissione Cultura della Camera Luigi Gallo) e i fedelissimi del presidente della Camera, Roberto Fico, da Giuseppe Brescia a Riccardo Ricciardi. Sono loro al momento i più convinti che sia un errore gettare alle ortiche il progetto di un’alleanza strutturale con il Pd alle prossime regionali, specie in Emilia.