Roma, 8 maggio 2019 - In attesa che stamani si consumi l’ultimo atto dello psicodramma Siri, la rissa tra Di Maio e Salvini che si esalta sui temi cari ad entrambi, segnala come la maggioranza arrivi all’appuntamento odierno con la febbre altissima. La nuova tempesta giudiziaria che si abbatte su Milano fa saltare qualsiasi ipotesi di tregua armata: non che nella sostanza cambi niente per il sottosegretario leghista.
Era evidente da giorni che la proposta di revoca del premier Conte sarebbe passata: però anche la forma ha la sua importanza. Se lunedì sembrava lecito aspettarsi uno sforzo congiunto per far passare una spaccatura profonda come un «dissenso locale» se non circoscritto quanto meno contenibile, il quadro si è rovesciato. I due vicepremier non solo incrociano i rispettivi spadoni su giustizia ed economia, ma fanno il possibile per esaltare la valenza deflagrante della riunione dei ministri. Tanto che neppure è più fondamentale capire se si arriverà a un voto formale (eventualità molto remota) dal momento che entrambi hanno assegnato al confronto odierno lo stesso valore, calcando oltre tutto sulla parola ‘conta’ messa all’indice 24 ore prima.
Per tutto il giorno, Salvini va giù piatto: «Se c’è un voto, noi voteremo contro: i grillini si assumeranno la responsabilità delle dimissioni». Perché la Lega fingerà di accettare a malincuore il licenziamento di Siri per rilanciare una controffensiva a tutto campo, sui temi più scottanti: «Siamo spaccati anche altro: su autonomie, sulla Tav, sull’immigrazione». Con l’Autonomia, porterà subito a scadenza l’ipoteca sulla flat tax di fronte alla quale il premier Conte si è mostrato fin qui più che tiepido. Matteo intende metterla sul tavolo del consiglio stamattina: «Prima si fa e meglio è. L’evasione non si combatte solo con le manette, anche abbassando le tasse». Figuriamoci: altrettanto violenta è la replica dei grillini, infastiditi pure dagli affondi sullo sblocca-cantieri, considerati «un pretesto» per rompere: «E’ l’ennesima farsa, non può portare un decreto senza che il Quirinale ne sappia nulla». Più o meno in linea con lo scambio acido di battute su Siri, quando all’ultimatum di Di Maio sul passo indietro («è l’ultimo giorno utile per fare ciò che è giusto»), Salvini rispondeva picche: «Una colpa va dimostrata». Di sicuro c’è che il vicepremier grillino approfitta della vicenda milanese per lanciare una crociata contro la corruzione che – in una conferenza stampa convocata assieme al guardasigilli Bonafede – definisce «una emergenza del Paese». Intima ai partiti di «redimersi» perché Tangentopoli «non è mai finita». Propone quattro leggi (conflitto di interessi, lobby, grandi evasori, tempi della giustizia) ma soprattutto prende di mira la Lega che accusa tra le righe di non combattere abbastanza la corruzione, come dimostra il caso Siri: «Il 70% degli italiani è per le dimissioni». Come anche alcuni parlamentari del Carroccio, aggiunge, dunque è Matteo «a sbagliare». Né si ferma qui: chiede pure spiegazioni sulla vicenda del mutuo acceso da Siri per la palazzina di Bresso: «Non a tutti gli italiani viene dato un mutuo di 600mila euro senza nemmeno dare la garanzia di un’ipoteca e parliamo di una persona che ha patteggiato una condanna per bancarotta fraudolenta». Da notare la conclusione che i due vicepremier traggono dal quadro fosco appena dipinto è opposta a ciò che si potrebbe aspettare: «Nessuna crisi, andiamo avanti». Difficile dire se ci proveranno davvero, ad un prezzo peraltro alto: quello di una paralisi vistosa. Ma non è affatto escluso che sia partito il più classico tra i giochi della politica italiana: quello del cerino. La maggioranza è già morta ma nessuno dei due soci intendere essere il primo a certificarlo.