Venerdì 15 Novembre 2024
ELENA G. POLIDORI
Politica

Di Maio festeggia ma il M5s non c’è più. Il referendum maschera la resa dei conti

Il capo della Farnesina punta alla riconquista della leadership del Movimento. I pentastellati sono divisi anche nel gruppo parlamentare

Su Fb Luigi Di Maio (Ansa)

Su Fb Luigi Di Maio (Ansa)

Roma, 22 settembre 2020 - La vittoria del Sì al referendum è stata sbandierata ieri dai leader grillini come un trionfo in grado di coprire la débâcle dei candidati regionali e l’assoluta inconsistenza di quelli che si sono presentati per le comunali, dove nessun stellato ha raggiunto il ballottaggio. Luigi Di Maio, com’era prevedibile, si è subito intestato questa vittoria, condotta a fianco di Paola Taverna, al fine di renderla architrave del rilancio di un Movimento le cui crepe e lotte interne, tuttavia, torneranno ben visibili appena la polvere dei festeggiamenti si sarà posata. Come ha fatto chiaramente capire Ignazio Corrao, europarlamentare e volto noto dei grillini, che è arrivato come una doccia gelata sull’entusiasmo dei leader: "Bisogna avere la maturità di dirci che il Sì di oggi alla riforma è lontano anni luce da poter essere considerato un voto ‘a favore’ del M5s o di chi lo gestisce. Come è facile capire dai risultati elettorali che invece sono il disastro più assoluto. Che ci sia euforia, tra i miei colleghi, per questo risultato, lo trovo fuori luogo e fuorviante. Perché oggi dovremmo tutti stare a testa bassa e riflettere su come ci siamo ridotti a questi numeri e quali sono le responsabilità". Riflessione che, invece, non c’è. Né ci sarà, almeno a breve.

Ieri, per il M5s, è stato il giorno della rimozione dei problemi veri che lo attanagliano per spacciare all’esterno la falsa moneta di un partito che "traina il cambiamento": "Quello raggiunto è un risultato storico – ha commentato infatti Di Maio – torniamo ad avere un Parlamento normale, con 345 poltrone e privilegi in meno. Senza il M5s non sarebbe mai successo".

Più tardi gli ha fatto eco Vito Crimi, capo pro tempore del partito, che ha parlato di "risultato entusiasmante": "Il prossimo step sarà il taglio delle indennità parlamentari e il conflitto d’interessi non ci fermeremo qui con le riforme". Ma Di Maio, intestandosi la vittoria, ha anche mandato un siluro a Crimi, sostenendo che "le regionali invece potevano essere organizzate diversamente e con un’altra strategia", frase che è stata letta dai più come una formale apertura, da parte del ministro degli Esteri, del congresso del partito, dove intende far valere, in modo pesante, il risultato del voto a suo vantaggio e con lo sguardo ovviamente rivolto alla riconquista della leadership.

La scalata di Di Maio, tuttavia, appare tutt’altro che semplice. Il ministro degli Esteri resta inviso a una parte consistente dei gruppi parlamentari e l’estrema parcellizzazione delle divisioni interne rendono complesso ricostruire una geografia delle influenze. Figurarsi trovare un collante politico che li tenga di nuovo tutti insieme. Fuori dal Palazzo, poi, la mina Alessandro Di Battista, spalleggiato da un sempre più distante Davide Casaleggio, è ormai diventata incontrollabile. L’appoggio dato dall’ex ‘gemello diverso’ di Di Maio ad Antonella Laricchia in Puglia, ha convinto persino il direttore del Fatto, Marco Travaglio, a bacchettarlo pesantemente, nonostante ‘Dibba’ collabori da tempo per il suo stesso giornale.

Insomma, una ‘guerra’ di tutti contro tutti che potrebbe deflagrare definitivamente se il Pd chiederà un rimpasto di governo. A rischio, infatti, ci sono proprio due ministre stellate, quella dell’Istruzione Azzolina e Nunzia Catalfo, ministra del lavoro, che il Pd vorrebbe lontano dal ministero di via Veneto quando ci saranno da gestire i denari del Recovery Fund destinati a far ripartire il mondo del lavoro.

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