È un’onda che viene da lontano, ma qualche increspatura la lascia anche sulle nostre coste. Del resto, quando c’è di mezzo Trump, è sempre possibile che il mare delle reazioni non sia piatto. Anche se gli sparano. È successo pure questa volta. L’anomalia, forse, è che ad agitare le acque sia proprio il leader più amico dell’ex (forse futuro) presidente Usa: Matteo Salvini. Intendiamoci, il leader della Lega ha espresso un pensiero forte, discutibile, ma comunque libero, sottolineando come l’attentato dell’altra notte sia frutto di un clima creato dai "toni violenti della sinistra che armano i deboli di mente". E di sicuro non pensava solo a Washington. Niente a che vedere con il commento pacato e istituzionale del ministro Tajani e di Giorgia Meloni che ha auspicato come in Usa debbano "prevalere dialogo e responsabilità su odio e violenza". Si dirà: Meloni è presidente del Consiglio, oltre che leader di Fratelli d’Italia. Vero. Salvini, a sua volta, è il vicepresidente, oltre che leader della Lega. Uomo di Governo, insomma. Mentre il ruolo ha modellato idee e comportamenti di Giorgia, come spesso accade a chi si cala in responsabilità istituzionali, quello di Matteo non pare aver annacquato la sua vocazione alla lotta. Anzi. Quelle su Trump e dintorni sono parole, e domani saranno già in archivio. Ma lo schieramento alternativo in Europa, l’adesione al gruppo estremo dei cosiddetti Patrioti è un fatto. Kiev pure. Giusto due giorni fa Salvini aveva chiarito come la diversa collocazione a Bruxelles non mini la solidità della coalizione a Roma. Possibile. Questo Carroccio che in politica estera (!) viaggia su binari spesso diversi da quelli di Palazzo Chigi, dunque in fondo di se stesso, beh, non è un dettaglio. È un problema. Risolvibile, certo, anche senza venire meno alle proprie idee. Ma decidendo semplicemente quale ruolo scegliere: di lotta o di governo?
PoliticaLotta o governo, la Lega ancora in mezzo al guado