Il Jobs Act è diventato da anni il simbolo di tutti i mali del lavoro per la sinistra e la Cgil. Perché questo accanimento?
"Quando non si riesce a leggere il presente per costruire il futuro, ci si rifugia nel passato – avvisa netto Tommaso Nannicini, economista, sottosegretario a Palazzo Chigi nel governo Renzi, “padre“ del Jobs Act –. Qualcuno pensa davvero di combattere la precarietà a colpi di referendum? Salari fermi, giovani senza prospettive, tecnologie che erodono il valore sociale del lavoro, cervelli in fuga, sfruttamento in settori a basso valore aggiunto e alto tasso di infiltrazioni criminali: quale di questi problemi verrebbe risolto con i referendum della Cgil? Nessuno. Quando è a corto di idee, il sindacato si rifugia nelle piazze o nei simboli".
E perché una parte del centrosinistra gli va dietro?
"Per opportunismo. Per scaricare le colpe collettive degli errori del Pd negli ultimi decenni solo sulla stagione di Renzi. Fare autocritica su altre scelte sarebbe più difficile. Il Titolo V che ha spezzettato il Paese in piccoli sultanati regionali? Il taglio dei parlamentari che ha indebolito la nostra democrazia? Il Superbonus che ha sprecato risorse a danno di giovani, donne e fasce deboli? Per carità, lasciamo stare. Meglio dividersi sul Jobs Act, il cui punto più controverso già non esiste più".
Come valuta la posizione del Pd di Schlein sul referendum e sul Jobs Act?
"Qualcuno dice che quella posizione segnala uno scivolamento a sinistra, un cedimento al massimalismo. A me sembra solo trasformismo. Che credibilità può avere un partito che demonizza una riforma che ha fatto poco tempo fa con un leader votato da otto militanti su dieci? Autorevoli dirigenti dell’attuale Pd guidato da Elly Schlein non solo hanno votato quella riforma, ma l’hanno elogiata in giro per le Feste dell’Unità".
Ha ancora senso oggi un referendum contro il Jobs Act o contro suoi aspetti specifici?
"Il referendum della Cgil non abroga il Jobs Act. Non tocca gli elementi fondamentali di quella riforma, dalla Naspi alle politiche attive, dalla stretta sulle false partite Iva alla cassa integrazione. Si limita a chiedere di abrogare un decreto che, nei fatti, non esiste più, perché una sentenza della Corte Costituzionale l’ha già stravolto. È una discussione lunare. Anche perché, una volta abrogato quel decreto, si tornerebbe alla riforma del governo Monti del 2012, allora sostenuta dal Pd di Bersani, che aveva già ridotto l’articolo 18 all’ombra di sé stesso. Col risultato paradossale che l’indennizzo massimo in caso di licenziamento illegittimo passerebbe da 36 a 24 mesi. Un capolavoro".
Che cosa rimane di quel provvedimento oggi?
"Il Jobs Act è una riforma fatta in un altro mondo, dieci anni fa, così ampia e complessa da essere difficilmente etichettabile: una legge delega, otto decreti legislativi, più due leggi collegate, sul lavoro autonomo e sul reddito di inclusione. Di sicuro, restano la riforma degli ammortizzatori sociali, le semplificazioni, le dimissioni in bianco, le tutele per il lavoro autonomo e la norma contro le false partite Iva, usata dai rider di Torino per ottenere più diritti in tribunale. Non resta il contratto a tutele crescenti, smantellato dalla Corte, né la riforma delle politiche attive, oggi più necessarie che mai".
A distanza di dieci anni qual è il suo bilancio di quella stagione di riformismo nel lavoro?
"Piaccia o no, il Jobs Act resta uno degli ultimi esempi di una politica che non ha paura della propria ombra, che ha l’ambizione di fare riforme di sistema anche a costo di qualche errore. D’altronde, “chi non fa non falla“, si dice in Toscana. Oggi quell’ambizione e quel coraggio andrebbero riscoperti su altri fronti: reddito di formazione, congedi paritari, rafforzamento della contrattazione collettiva, partecipazione delle lavoratrici e dei lavoratori, produttività. Sono questi i temi su cui dovremmo concentrarci. Serve un sistema di formazione permanente di massa, ben finanziato e uniforme su tutto il territorio nazionale. E servono investimenti in tecnologie che rafforzino il lavoro umano anziché sostituirlo. La politica e il sindacato dovrebbero discutere di queste priorità. Chi ci tiene impantanati in una discussione lunare sul Jobs Act guarda più al proprio destino politico che al benessere di chi ci lavora".