Roma, 9 aprile 2024 – Avevamo, da bambini, un lessico privato per le confidenze. Veniva riservato a grandi segreti (come la confessione di una cotta, l’insofferenza verso un insegnante) che dovevano rimanere tali alle orecchie degli adulti o dei compagni di scuola che in quel momento avevamo in antipatia. Di norma suddividevamo le parole in sillabe e a ciascuna ne appiccicavamo un’altra, sempre la stessa.
Se Giulia si invaghiva di Michele, il messaggio in codice era: Da-A da-Gi da-u da-li da-a da-pi da-a da-ce da-Mi da-che da-le (A Giulia piace Michele). Eravamo post-dadaisti a nostra insaputa. Una fatica inutile poiché, nel banco dietro il nostro, qualcuno confidava la stessa cosa con lo stesso sistema. Perché lo facevamo, allora? Probabilmente per sentirci parte di una comunità, di un circolo a cui accedevano pochi eletti, coloro che sapevano decifrare il codice. Oppure per ‘riconoscerci’, a partire dal linguaggio condiviso.
Un po’ come i personaggi – per alzare un po’ il livello della citazione – del Lessico famigliare di Natalia Ginzburg. Oppure – in questo salire e scendere di paragoni –, certi vezzeggiativi di alcune coppie, nati all’inizio della relazione e usati fino alle nozze d’oro, pure se i due non si sopportano più. Forse perché quel linguaggio famigliare è tutto ciò che rimane di un rapporto logoro, usurato dal tempo e dal mutare delle condizioni. È un’ancora, un modo per ribadire un’appartenenza, una scelta fatta mille anni addietro di cui non ricordiamo più le motivazioni ma è tutto quel che resta di noi. Mancando quello, mancano i presupposti per stare insieme.
Mi chiedo se ciò avvenga anche nel caso di quel tipo di linguaggio chiamato (e non è un complimento) politichese. Attualmente è in voga uno smodato uso di termini campestri, forse per l’arrivo della bella stagione che ci invoglia a correre a perdifiato nei prati. Dove ti giri c’è un campo. Un campo largo, un campo ristretto, un campo giusto. Da una trentina d’anni, mutuando dal gergo calcistico, replichiamo la locuzione "scendere in campo" inaugurata da Cavaliere. A volte qualcuno salta i confini del proprio orticello per andare in camporella [der. di campora: campicello, piccolo prato; per intendere l’amoreggiare in campagna]. Ma sono passioncelle di poco conto, dettate appunto dalla primavera birichina, e che non reggono l’urto della prima folata di vento.
Ci ripensavo in questi giorni ascoltando alcuni vocaboli già utilizzati da Elly Schlein dopo l’elezione alla segreteria del Pd (eliminare i cacicchi, sfoltire i capipopolo, sedare le correnti) e ripetuti ora in duetto con un tribuno del popolo restio a una certa camporella. M’è venuta la curiosità di conoscerne origine e significato, e sono ricorsa alla Treccani.
Del cacicco [dallo spagn. cacique, adattamento di una voce aruaca], scopro che si tratta di un capo indigeno delle Antille; il capobastone [comp. di capo e bastone] è, nelle organizzazioni mafiose, il capo di un’area territoriale; gli inciuci [dal napol. ’nciucio, propr. ‘pettegolezzo, sobillamento’, di origine onomatopeica] sono accordi ottenuti sottobanco e non sempre etici; le sempreverdi correnti [part. pres. di correre sostantivato al femm.] definiscono, fra le tante declinazioni, quei gruppi che in seno ai partiti cercano di far prevalere il proprio indirizzo politico. In questo caso il termine è corredato di accrescitivi e diminutivi che danno la misura e forza della corrente stessa: correntóne; correntino. Poiché, per continuare il gioco delle citazioni, "le parole sono importanti", mi chiedo: è un linguaggio comprensibile? È rivolto a tutti o è un circoscritto a un gruppo specifico? È un codice per iniziati? Vestigia di relazioni superate che non vogliamo abbandonare per paura di non riconoscerci? Di separarci? Lasciarci?
Sì, le parole sono importanti. Perché definiscono i pensieri che stanno alla base delle nostre azioni, disegnano l’immaginario verso cui tendiamo.
Vanno scelte con cura. Da-Si da-pu da-ò da-fa da-re.