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La svolta di Craxi nel 1984. Il contenimento dei salari che sconfisse l’inflazione
Nel giorno di San Valentino, il 14 febbraio del 1984, il capo del governo Bettino Craxi rompe gli ultimi indugi e fa approvare dal Consiglio dei ministri un decreto che taglia tre dei dodici punti di contingenza previsti per l’anno in corso. Certo, sforbiciare le retribuzioni è una scelta palesemente impopolare, ma per Craxi ne vale la pena: abbattendo l’inflazione a due cifre, punta a recuperare il potere d’acquisto dei salari. Tre anni dopo si misureranno i risultati: l’inflazione, dalle precedenti quote sudamericane, scenderà sino al 4 per cento; Standard and Poor’s avrebbe assegnato, per la prima (e ultima) volta, la tripla A all’Italia e quanto alla crescita, il governo Craxi si era insediato col Paese in recessione, ma nel 1988 il Pil era al più 4,1%.
Il decreto di San Valentino racconta una storia atipica per la politica italiana: da una parte un governo “disattento” al consenso immediato – atteggiamento inimmaginabile nei decenni successivi – ma altrettanto anomalo è quel che accadrà dopo. La Cgil non indice uno sciopero generale, ma sono gli “autoconvocati” del Pci a scendere in piazza, sventolando l’Unità, che titola "Eccoci". I manifestanti si sfogano: "Craxi vogliamo la tua testa", "Bettino sei sulla buona pista, anche Benito era socialista". Enrico Berlinguer annuncia: il Pci raccoglierà le firme per il referendum abrogativo. Accusata la botta, che è forte, Craxi finisce per scherzarci: "Se invitassi gli italiani a vaccinarsi contro il vaiolo, il Pci direbbe che il vaiolo fa bene alla salute". Il presidente del Consiglio lo dice subito e chiaro: se avesse prevalso il sì all’abrogazione, lui si sarebbe dimesso. Ma nella sorpresa generale, vince il no, con un risultato importante. L’affluenza è alta (il 78,8%) e i no sono oltre diciotto milioni. In altre parole gli italiani hanno detto sì a un contenimento dei propri salari, scommettendo su una loro futura “rivalutazione”.
Nella primavera del 1987, a fine legislatura, gli sforzi del governo troveranno il riconoscimento formale del governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi e dunque, i “contemporanei” – sia gli elettori che la Banca centrale – promossero il governo. Eppure, diversi anni dopo, per uno di quei tam-tam striscianti e alla fine efficaci nell’attribuire colpe generiche, si caricherà su Craxi la responsabilità per il boom del debito pubblico. Una fantasia costruita a posteriori. Studi puntuali dimostrano semmai che la “vera storia” del debito pubblico – che certo crebbe – è ben diversa dalle vulgate più corrive: l’effetto accumulo ha inizio negli anni Settanta, quelli della consociazione Dc-Pci.
La generosa riforma previdenziale del 1969 varata dal governo Rumor è come uno spartiacque: il debito comincia a salire, sospinto da una striscia di provvedimenti e di accordi tra le parti sociali che via via diventerà imponente. La riforma dei regolamenti parlamentari, con la novità dell’obbligo della copertura finanziaria per ogni nuova spesa, favorirà pratiche di finanza creativa: le coperture verranno spesso affidate alla crescita futura che si immagina possa essere prodotta da quelle stesse misure. Nel 1975, assieme al patto Confindustria-sindacati sulla contingenza, una nuova legge stabilisce un meccanismo di aggancio delle pensioni al costo della vita e alla dinamica contrattuale dei salari.
Prende corpo il welfare all’italiana, segnato dal dogma dell’universalità, ma anche dal carattere “risarcitorio”, in particolare delle pensioni di invalidità. Nel 1984, prima di una riforma, il numero degli invalidi (oltre 5 milioni) superava quello delle pensioni di vecchiaia, che erano 4 milioni. Rigidità moltiplicate dal più avvelenato dei frutti degli anni Settanta: le indicizzazioni, che si propagano ovunque: dalle tariffe pubbliche al finanziamento dei partiti. Una indicizzazione generalizzata, in percentuale fissa sul Pil, un meccanismo che sino al 14 febbraio 1984 sembrava impermeabile a qualsiasi modifica.