La stella polare di Giorgia Meloni è il record che vuole raggiungere: il primo governo durato cinque anni nella storia repubblicana. Berlusconi in realtà restò a Palazzo Chigi dal 2001 al 2006 ma con un cambio della squadra tale da meritare il nome di bis. La premier vuole evitarlo e anche per questo considera la parola rimpasto impronunciabile. Ma non è solo questione di simboli, traguardi, scaramanzie. A sconsigliare qualsiasi ipotesi di rinnovo della squadra vale anche il calcolo lucido. Salvini, non c’è dubbio, chiederebbe il ministero dell’Interno ora che, come ha segnalato, non esistono più ostacoli giudiziari.
Problema doppio per la premier: prima di tutto perché Salvini in quella postazione sarebbe un enorme inciampo. Hanno metodi diversi e, soprattutto, lei vuole gestire il dossier immigrazione in accordo con l’Europa, mentre il leader leghista no. E poi, perché Forza Italia scalpita: coglierebbe l’occasione per pretendere il riconoscimento della sua importanza accresciuta. Questione che si aprirebbe anche se non ci fosse Salvini, perché la richiesta Tajani la avanzerebbe e, comunque, alterare l’equilibrio rischierebbe di provocare reazioni a catena, in questo caso con la Lega. Ma pure FdI creerebbe grane. Il partito è unito nel seguire le indicazioni della leader assoluta, e trattandosi di una presidente che ha portato i tricolori dal 4 al 27,6% certificato ieri non potrebbe essere diversamente. Salvo che nell’obbedienza assoluta alla premier per il resto anche dentro FdI ci sono aree diverse, correnti, lotte di potere e niente equivale a un bel rimpasto per farle emergere.
Ci sono anche altre considerazioni: cambiare la squadra significa ammettere che qualcosa non ha funzionato a dovere. La narrazione della premier è opposta: tutto gira alla perfezione. Dunque, squadra che vince non si cambia. Il rimpasto non ci sarà, ma qualche sostituzione potrebbe rendersi necessaria – ogni riferimento a Daniela Santanchè non è puramente casuale – come già successo con Fitto. In questa eventualità la strategia di Giorgia è chiara: procedere pedina per pedina stando attenta a non far scattare alcun effetto domino. Per la verità qualche casella vacante già c’è tra sottosegretari e viceministri: sono da coprire il posto all’Istruzione lasciato libero da Augusta Montaruli, quello di Vittorio Sgarbi alla Cultura e quello alle Infrastrutture ricoperto da Galeazzo Bignami, neopresidente dei deputati di FdI: nella maggioranza fanno sapere che si aspetterà il rinnovo delle commissioni a metà mandato.
Prevedibilmente le richieste di rimpasto non finiranno, ma chi ci spera dovrà politicamente passare sul corpo di Giorgia Meloni e non è un compito facile. Del resto le nomine, come il caso di mamma Rai dimostra, sono un problema anche quando non si arriva al territorio off limits del rimpasto. Oggi era in programma un Consiglio dei ministri che avrebbe dovuto nominare il generale Mauro D’Ubaldi commissario per l’alluvione in Emilia-Romagna, ma è saltato: Michele de Pascale ha ancora qualche chance per l’incarico? Di certo, lo slittamento ha spostato un’altra scelta difficile: anche qui si tratta di nomi, pure se formalmente il problema è impugnare o meno davanti alla Corte Costituzionale una legge regionale, quella approvata dalla Campania il 5 novembre, che spalancherà le porte al terzo mandato da governatore di Vincenzo De Luca. Senza impugnarla quelle porte si apriranno anche per Luca Zaia e la premier vuole evitarlo. È anche vero che se deciderà, come è probabile, in extremis (la deadline è il 9 gennaio) di bloccare la legge di De Luca con lui affonderà anche il leghista, ma poi si creerà un problema Zaia, nome troppo pesante per essere pensionato. E con il problema Zaia rispunterà la parola maledetta: rimpasto.