Roma, 10 novembre 2019 - Ufficialmente non ci sono stati contatti. Ma, dietro le quinte, il dialogo con ArcelorMittal continua. In vista del vertice decisivo previsto (forse) per domani a Palazzo Chigi. Obiettivo: evitare a tutti i costi la chiusura della fabbrica. Fonti vicine al dossier fanno sapere che, scudo penale a parte, il confronto è tutto concentrato sui 5mila esuberi denunciati dal gruppo franco-indiano e su un maxi-sconto sul prezzo che la multinazionale paga per l’affitto degli impianti. L’esecutivo, in particolare, punterebbe a ridurre il numero dei lavoratori da avviare alla cassa integrazione, non oltre le 2.500-3.000 unità. Prevedendo, per gli altri 1.500- 2.000, un fondo ad hoc (con una dote fra i 10 e i 20 milioni) da inserire nella manovra economica, per la riqualificazione e il reinserimento in nuove attività produttive e nella bonifica dell’area. Ma i margini sono strettissimi e il governo si prepara ad utilizzare tutte le armi a disposizione per convincere la multinazionale a restare. Non sarà facile.
ArcelorMittal ha già avviato una progressiva fermata degli impianti, i primi dirigenti hanno già lasciato Taranto. Uno scenario che potrebbe spingere i Commissari dell’ex Ilva a una vera e propria battaglia a colpi di carte bollate contro la società. Sarebbe già pronto un ricorso cautelare urgente, ex articolo 700 del Codice di procedura civile, da depositarsi al Tribunale di Milano (lì è la sede legale della società). Ma si lavora anche ad un piano B, per mettere in sicurezza la fabbrica nel caso in cui la trattativa con i franco-indiani finisse su un binario morto. L’ipotesi resta quella di un intervento pubblico, una sorta di mini-nazionalizzazione. Ma resta ancora da capire chi sarà il cavaliere bianco che l’esecutivo riuscirà a schierare in campo. L’ipotesi di un ingresso diretto di Cassa depositi e prestiti (Cdp) nel capitale dell’acciaieria appare complicata, anche alla luce delle norme dello Statuto che vincolano l’assunzione di partecipazioni (anche indirette) alla "stabile situazione di equilibrio finanziario, patrimoniale ed economico, oltre che alle adeguate prospettive di redditività della società". Condizioni che, per ora, non sarebbero presenti a Taranto. Cdp potrebbe invece intervenire nel caso in cui si trovasse un altro partner industriale al posto di ArcelorMittal. Ma gli indiani di Jindal, che hanno appena confermato gli impegni per Piombino, sembrano fuori gioco. Ed eventuali cordate tricolori di capitani coraggiosi paiono poco affidabili. Nel frattempo, la maggioranza giallorossa serra i ranghi dopo le divisioni dei giorni scorsi.
"Se l’intenzione di Mittal è quella di andarsene dopo aver firmato un contratto con lo Stato in cui si impegnava a prendere 10.700 lavoratori e fare 8 milioni di tonnellate di acciaio, allora ha sbagliato governo, perché non glielo permetteremo", minaccia il leader dei 5 Stelle, Luigi di Maio. Si fa sentire anche il commissario agli Affari Economici ed ex premier, Paolo Gentiloni: "I patti vanno rispettati, sia da ArcelorMittal sia dalle istituzioni italiane". Del tutto contrario alla nazionalizzazione, invece, il leader della Lega Matteo Salvini: "Chi paga il conto?".