Roma, 29 giugno 2024 – "Penso che ignorare l’avanzata delle destre alle elezioni europee sia stato un segno di miopia politica. E non mi riferisco ai partiti, ma agli umori elettorali. I sentimenti che serpeggiano nelle società civili dei Paesi europei sono chiari. C’è un malessere radicato e diffuso anche in Paesi come Francia e Germania, testimoniato anche dall’astensione. Era questo il segnale da cogliere".
Il professor Campi insegna storia delle dottrine politiche nell’Università di Perugia, è direttore dell’Istituto per la storia del Risorgimento italiano e storico della destra europea. E dice che nella scelta dei top jobs dell’Ue "evidentemente si è ritenuto di dover andare sul sicuro e blindare la maggioranza esistente. Dal punto di vista formale, nessun problema. Da quello politico, rimangono le perplessità".
Eppure è stato il Partito popolare europeo a dare l’ok alle nomine, escludendo così i gruppi di Identità e democrazia e i Conservatori e riformisti Europei.
"Ma secondo me più importanti delle maggioranze sono i programmi. Il Ppe già negli ultimi due anni della scorsa legislatura si era molto irrigidito su Green deal e transizione ecologica, avvicinandosi alla destra conservatrice. Durante la legislatura si dovranno formare alleanze tattiche sui temi e lì si giocherà un’altra partita, trovando sponde su punti specifici. E poi, se Trump dovesse diventare presidente degli Stati Uniti, l’Europa dovrà rivedere le sue politiche di sicurezza: questo aprirebbe un fronte importante per l’Ue".
Che cosa distingue Ecr di Meloni da Id di Marine Le Pen?
"Innanzitutto la destra lepenista è molto laica, come nella tradizione della politica francese. FdI e il Pis polacco invece hanno venature più cattolico-conservatrici. La destra italiana poi ha assunto una posizione atlantista e antirussa, quella francese è più ambigua. I lepenisti poi sono all’inizio di un processo che la destra meloniana ha già fatto. Il corpo del partito ha ormai metabolizzato il passaggio verso posizioni di destra nazional-conservatrice".
La sua Rivista di politica apre sul post populismo e sulle democrazie al bivio tra demagogia e realismo. Che differenza c’è tra nazionalismo e sovranismo?
"Il sovranismo è il nazionalismo della paura. Ed è nemico della globalizzazione, che vede come minaccia su ogni versante. È una tendenza a chiudersi antistorica. E si tratta di qualcosa che un Paese come l’Italia non può permettersi".
Il 18 luglio a Strasburgo si vota su von der Leyen presidente della Commissione europea. Questo significa che fino a quella data si può trattare. Su che cosa deve puntare Meloni? Sul portare a casa un commissario o sulla coerenza?
"Secondo me ci sono stati due registri finora: quello pubblico delle dichiarazioni ufficiali e quello delle trattative, che sono continuate sottotraccia. La premier fa benissimo a cercare di stare dentro il Grande Gioco europeo. E si rende conto che se anche il Ppe si accordasse con la destra si aprirebbe un fronte con liberali e socialisti. Meloni deve trovare un accordo pragmatico, evitando di chiamarsi fuori dalla partita facendo la vittima. Lei ha un rapporto stretto con von der Leyen e ci sono componenti del Partito popolare che hanno interesse a tenere il piede in due staffe. Dopo le nomine ci sono i commissari. Battere i pugni sul tavolo non serve a niente. Bisogna negoziare e trattare".