Venerdì 27 Settembre 2024
ANDREA CANGINI
Politica

I dolori del giovane Matteo

Andrea Cangini

Andrea Cangini

POCO meno di due anni fa Matteo Renzi aveva il mondo in pugno: la stima degli americani, il rispetto dei tedeschi. Il 40,8% dei voti incassati dal Pd alle Europee e il piglio deciso nel conquistare il governo avevano fatto di lui il leader naturale delle socialdemocrazie continentali e il fenomeno politico nuovo del momento. Visto con occhi stranieri, sembrava un italiano diverso: pragmatico, coraggioso, di parola, realmente deciso a “cambiare verso” al Paese. Un uomo nuovo. Un uomo a cui dare fiducia. E quell’inedito ottimismo nei confronti del leader si è riflesso per un po’ sull’intera nazione. E’ tutto finito. Oggi del Belpaese e del premier italiano i tedeschi pensano quel che pensava Goethe esattamente due secoli fa al termine del suo “Viaggio in Italia”. Detta brutalmente, un popolo di cialtroni irresponsabili guidato da un irresponsabile cialtrone. Un popolo che, annotava il grande letterato di Francoforte, vuole solo «ridere e ascoltare insulsaggini»; un Paese dove «è incredibile come nessuno vada d’accordo con l’altro». Nessun credito, dunque. 

PAR di capire che il medesimo giudizio appartenga ormai a tutte le cancellerie europee, ai tecnici di Bruxelles, ai commissari della Commissione Ue, ai centri di potere globali, agli ambienti finanziari anglosassoni. Basta leggere certi giornali italiani e stranieri. Basta ascoltare le dure parole pronunciate mercoledì in Senato da Mario Monti. Basta dar credito alla «grande preoccupazione» sussurrata dall’ex capo dello Stato Giorgio Napolitano, personalmente offeso dalle uscite renziane sull’Italia che «non va più in Europa col cappello in mano». Basta osservare l’attivismo revanscista dell’ex premier Enrico Letta.

BASTA leggere le parole con cui l’economista Lorenzo Bini Smaghi (renziano sì, ma soprattutto uomo del potere globale) ieri sul ‘Foglio’ metteva in burletta la pretesa del premier di staccare la Francia dalla Germania («un’illusione»). Manca solo la risatina del presidente francese e della cancelliera tedesca alle spalle del presidente del Consiglio italiano per evocare un clima internazionale pericolosamente simile a quello che nel 2011 portò alle dimissioni Silvio Berlusconi. Tant’è che da qualche settimana sia a Roma sia a Bruxelles si ragiona, spesso vaneggiando, del «dopo Renzi»: un tecnico o un politico? C’è solo una cosa che Renzi potrebbe fare per riconquistare la fiducia perduta: tagliare la spesa pubblica. I conti, infatti, non tornano. Il deficit reale si aggira attorno al 2,8% e non volendo far scattare le clausole di salvaguardia sull’Iva potrebbe balzare ben oltre il 3%. Agli occhi dell’Europa e dei mercati finanziari sarebbe il segno del fallimento. Non è però realistico che, nel pieno di un ciclo elettorale che comincia con le amministrative di giugno, passa per il referendum di ottobre e non esclude elezioni anticipate, il premier tagli almeno 16 miliardi di spesa pubblica. Se lo facesse, si condannerebbe all’impopolarità in Patria. Ma se non lo fa conclama la propria impopolarità in Europa. È dunque questo il dilemma renziano: accontentare gli elettori italiani o i grandi elettori europei. Ben sapendo che quando perdono la fiducia della Germania e dei mercati i premier italiani, prima o poi, finiscono per cadere. Di qui, parafrasando Goethe, i dolori del giovane Renzi.