Roma, 7 gennaio 2018 - Non c'è un fronte aperto, ce ne sono così tanti che non se ne contano più. E quel che è peggio, ogni giorno se ne aggiunge uno nuovo. A tenere banco resta sempre l’immigrazione: Di Maio insiste, ripete che per dare una lezione di umanità all’Europa è pronto a prendere donne e bambini. Lo fa, soprattutto, per una questione di principio: in ballo ci sono poche persone, e comunque le ong hanno già detto che rifiuterebbero di dividere le famiglie. Deve però fissare un paletto: quello di stabilire se in questo delicato terreno a decidere è esclusivamente Salvini o i 5 stelle hanno voce in capitolo. "È una decisione che prende l’intero governo", sottolinea il leader pentastellato. Ma il leader del Carroccio non lo smuove nemmeno sua Santità, figuriamoci il vicepremier: "Di migranti ne prendiamo zero. Se cediamo oggi, domani siamo da capo. Finché sono il ministro dell’Interno, i porti restano chiusi: rispondo agli italiani, non ai vescovi". E poco importa al responsabile del Viminale se il collega Toninelli faccia notare di non aver emanato decreti di chiusura "perché non serve, non essendo alcun porto interessato alle operazioni". Lui insiste: "Io non mollo". Lasciando all’alleato il compito di sbrigarsela con i suoi.
Sì, perché, il problema di Di Maio non è solo smarcarsi e conquistare autonomia e visibilità in vista di elezioni sulle quali gli aruspici – al secolo i sondaggi – non pronosticano niente di buono. Ma deve fare pure i conti con la pressione esercitata da un Movimento che rischia la rotta di collisione con il Carroccio su tutto. E quando i vertici scelgono di cedere, non è oramai più scontato che l’intero corpaccione pentastellato li segua. Sulla legittima difesa, per dire, cresce la fronda grillina: si racconta di un buon numero di deputati (il grosso è rappresentato dai 18 che firmarono una lettera per cambiare il decreto sicurezza) che vorrebbe valutare la possibilità di modifica del provvedimento approvato al Senato. Roba dell’altro mondo per Salvini, il quale assapora l’idea di chiudere la pratica ai primi di febbraio: "Cercano di farmi litigare con M5S, ma non attacca. Purché si rispettino i patti: sono sicuro che lo stesso impegno ci sarà sulla legittima difesa e non ci saranno scherzi in Parlamento".
I diritti, si sa, sono sempre stati una spina nel fianco di una parte del Movimento che si riconosce nel presidente della Camera Fico. Ma non c’è solo questo: anche sugli assetti istituzionali divampa qualche fiamma. Perché il Carroccio pretende il quorum per il referendum propositivo ( "un minimo bisogna metterlo o decidono in 10", scandisce Salvini) mentre M5S non ci sta: "La cancellazione è prevista dal contratto", sottolinea il ministro Fraccaro. D’altra parte la strategia del leader della Lega è chiara. Mantiene saldo il timone, concedendo ai 5 stelle quel tanto necessario per tenerli legati e permettergli di tenere alte le loro bandiere propagandistiche, a cominciare dalla lotta alla casta. Così sul taglio degli stipendi ai parlamentari Matteo spalanca le porte: "È sacrosanto".
Il gioco del vicepremier nordico finora ha sempre funzionato, creando però disagi crescenti tra i pentastellati. Lo si è visto ieri con lo scontro sulle trivelle che solo apparentemente riguarda M5S. Una vicenda che rimanda al capitolo dove forse le posizioni tra i soci giallo-verdi sono meno conciliabili, tanto da rischiare di incendiare la prateria nei prossimi mesi: grandi opere e modello di sviluppo. La lista è lunga: trivelle, Ilva, Tap, Terzo valico e dietro l’angolo incombe il nodo anche simbolico del Tav.
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