L’Europa s’è destra. Può suonare un adagio sfrontato, ma è piuttosto l’esito scontato del lungo braccio di ferro sulla nomina dei vicepresidenti della commissione von der Leyen bis. Da cui escono rilanciato il ruolo della premier conservatrice Giorgia Meloni e consolidata l’egemonia politica del Ppe di Manfred Weber. Nel segno di una convergenza politica destinata a riprodursi sugli argomenti più scottanti dell’agenda Ue, a cominciare dai migranti.
La partita che si era aperta coi conservatori di Ecr trincerati in difesa dell’incarico a Raffaele Fitto, messo in graticola dai socialisti per la sua appartenenza politica, alla fine ha visto il gruppo di S&D costretto a correre ai ripari per difendere la socialista spagnola Teresa Ribera dalle minacce popolari e capitolare su tutta la linea, dando l’appoggio al vicepresidente italiano. Uno scontro non esente da risvolti nazionali, soprattutto per quel che riguarda la Spagna. Ma che sancisce un mutamento dell’asse politico dominante in Europa. Dove il Ppe si è battuto con le unghie e con i denti per difendere non solo Fitto, ma il dialogo con Ecr, che prelude a future intese in aula, dato che già si annoverano i precedenti importanti: dalle elezioni vezuelane ai migranti alla deforestazione.
Fiutando l’aria, i liberali di Renews, e soprattutto i socialisti di S&D, hanno provato a vincolare il Ppe alla tradizionale maggioranza che governa l’Europa dalle origini, chiedendo di firmare una "dichiarazione di cooperazione" a una "piattaforma" politico-programmatica. Tutto per far impegnare il Ppe a non votare con le destre. Frase chiave, intorno a cui era costruito tutto il chiacchiericcio, e sola locuzione che un già riluttante Weber ha preteso e ottenuto di cassare. Ragion per cui rimangono come condizioni "lo stato di diritto, una posizione favorevole all’Ucraina e un approccio pro-europeo". Niente che le destre conservatrici non possano condividere, Meloni in testa.
La nuova legislatura si apre quindi all’insegna di uno spostamento a destra dell’asse di governo, come ormai da tempo nelle strategie del Ppe di Weber e von der Leyen. Le destre, del resto, rappresentano ormai un quarto del parlamento nelle loro diverse sfaccettature: dai conservatori quasi moderati di Ecr (76) agli estremisti nazionalisti di Esn (25), passando per i patrioti PfE (84) con Orban, Le Pen, Salvini e altri. Un’onda che sale da lustri. E che il Ppe intende mitigare: normalizzando a vantaggio delle proprie politiche moderate, e a scapito dei declinanti socialisti, le destre considerate più presentabili.
Non che l’Europa si fondi su una maggioranza parlamentare di governo come l’Italia. Sono i governi nazionali a dominare la formazione della Commissione: e 13 su 27 sono a guida Ppe. Poi viene il Parlamento, dove il tradizionale asse popolar-socialista cede ormai alle destre. Il 18 luglio scorso von der Leyen ha ottenuto la fiducia al con 401 voti su 720, che corrisponderebbero alla somma di Ppe, S&D e Renews. Salvo che la cinquantina di franchi tiratori è stata compensata dai 53 Verdi all’insegna del Green deal. Un sostegno esterno deprecato dal Ppe weberiano. Col voto di FdI mercoledì prossimo, di fatto si apre una stagione nuova della politica europea. Dominata dal Ppe pronto ad alleanze variabili a seconda dei singoli dossier, come le restrizioni sull’immigrazione e le agevolazioni a uno sviluppo industriale meno green, ma che può sempre contare sui socialisti per la difesa delle prerogative e del rigore comunitari indigesti alle destre.